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jeudi, 06 août 2009

Russie/Chine: grandes manoeuvres sur le front oriental

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Russie/Chine: grandes manoeuvres sur le front oriental

 

22 juillet 2009: la “Mission de Paix 2009” vient de commencer. Il s’agit de manoeuvres militaires russo-chinoises qui se poursuivront dans les territoires les plus orientaux des deux  pays jusqu’au 26 juillet. Les opérations ont été planifiées pour 1300 militaires russes et autant de Chinois. Cent soixante véhicules blindés, dont des chars d’assaut, des avions et des hélicoptères participeront aux exercices. Ces manoeuvres ont pour but de renforcer la coopération entre les forces armées de Moscou et de Beijing, qui seront peut-être appelées à affronter les menaces du monde contemporain: le terrorisme et l’extrémisme. C’est ce qu’a déclaré le 22 juillet le chef d’état-major russe, le général Nikolaï Makarov. Mais ces manoeuvres n’ont pas été organisées à titre préventif seulement. Les protagonistes veulent faire entendre au monde un message bien précis par la voix du Général Makarov: “Les exercices militaires de ‘Mission de Paix 2009’ doivent démontrer à la communauté internationale que les forces armées de la Russie et de la Chine ont bel et bien la capacité  d’assurer la stabilité et la sécurité dans la région”. En clair: cela signifie que les adversaires du “Groupe de Shanghai” doivent se retirer du Turkestan oriental (Sinkiang), de l’Asie centrale et, aussi, bien sûr, de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud.

 

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 23 juillet 2009, trad. franç.: Robert Steuckers).

lundi, 15 juin 2009

Alla conquista del cuore della terra

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Archivio - 2003

Piero Pagliani(1) :

ALLA CONQUISTA DEL CUORE DELLA TERRA

  

Il testo completo su http://www.fedevangelica.it/glam/docglam/42/glam42.exe

 

Parte I. Potere, egemonia e guerra. La guerra e i cicli sistemici. Tipi di guerra - Violenza, potere politico e potere economico - Le fasi storiche ricorrenti di accumulazione del capitale e le “guerre sistemiche”. I cicli sistemici storici. Il ciclo britannico (Rule Britannia! Britannia rule the waves) - Non “imperialismo” ma “tipi di imperialismo” - L’Impero britannico e l’imperialismo britannico. Il ciclo americano - La crisi del ciclo americano - La fine del ciclo americano (L’Oriente è rosso?). Cala il sipario. La supremazia statunitense come accanimento terapeutico? Dallo scontro tra civiltà allo scontro nelle civiltà: Lo scontro nelle civiltà - La volontà e la rappresentazione - Autori e beneficiari: la pseudo-logica dominante - Perché l’Islam politico - L’impero autoreferenziale statunitense e il cosiddetto “spirito protestante” - I valori occidentali e la loro esportazione. Nota su maggioranza, minoranza e soggetti alternativi. Il sipario strappato: è possibile una resistenza? Appendice A: i primi cicli sistemici. Il ciclo genovese-iberico - Il ciclo olandese - La nascita dello stato-nazione capitalistico inglese.

 

Parte II. La conquista dell’Eurasia. L’Eurasia. Un posto che ne vale la pena. Le caratteristiche uniche dell’Eurasia - L’Heartland: Asia Centrale e Caucaso. Ovvero, la Torre di Babele. Breve profilo dei contendenti principali. La Russia - La Cina - La Turchia - L’Iran - L’Uzbekistan - La geopolitica degli Stati Uniti: dalla crisi egemonica alla conquista dell’Heartland. Impero o Imperialismo?. Il pendolo delle “opportunità”: i punti salienti della storia recente. Cambiamenti strategici nella storia recente dell’Heartland - L’eredità di Bush Jr. - I nuovi schieramenti - Excursus: perché è stato ucciso il Comandante Massud? - La conquista dell’Heartland e la guerra all’Iraq. L’Heartland e la geopolitica delle risorse energetiche. Premessa - Stime delle riserve energetiche in Asia Centrale - Pensieri geostrategici - Le pipeline: tra geopolitica e keynesismo di guerra - Gli sporchi giochi attorno alla BTC - La BTC: un’opera sovvenzionata dall’apparato militare-industriale? Geopolitica delle risorse naturali: ambiente e acqua. Generalità - Cenni sulla questione dell’acqua in Medio Oriente: l’asse “idro-militare” Turchia-Israele - Cenni sulla questione delle risorse idriche in Asia Centrale - Petrolio e acqua: il caso dello Xinjiang - Petrolio e ambiente: il caso del Bosforo. Epilogo. Excursus: di nuovo sull’autoreferenzialità. Appendice B: Il conflitto del Nagorno-Karabakh - Le contraddizioni degli USA nella politica eurasiatica: Sezione 907 contro Silk Road Strategy Act. Appendice C: L’Olocausto Armeno. Gli Armeni - Il genocidio - “Umanità” è un concetto geopolitico, come le direttrici delle pipeline.

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Come è tristemente noto, le guerre sono sempre rivestite da ideali. E’ un meccanismo che gli antichi Romani avevano codificato nel famoso "si vis pacem, para bellum", se vuoi la pace prepara la guerra. Il meccanismo dell’ossimoro, della contraddizione in termini. "Pace è guerra" come, riecheggiando Orwell, giustamente la scrittrice e militante indiana Arundhati Roy intitolava un suo articolo sull’Afganistan. "Guerra Umanitaria", "Guerra Etica" e via celando la verità, con il corredo di "effetti collaterali", "precisione chirurgica", "prezzi giusti da pagare" (da parte delle vittime, ovviamente), ecc. Nonostante l’assordante clamore di questo sistema di inganni, è ormai evidente a tutti che in ogni angolo del mondo milioni di persone in qualche modo hanno capito che i "conflitti locali" degli ultimi tre lustri, giustificati da questi o quei motivi, inventati o reali che siano, fanno in realtà parte di una produzione in serie progettata e realizzata, con gli inevitabili aggiustamenti in corso d’opera, dall’attuale potenza capitalistica dominante, gli USA, e dal suo entourage che incomincia ad assumere forme instabili e cangianti.

 

Il petrolio: una spiegazione necessaria ma non sufficiente

Moltissime persone hanno anche incominciato ad intuire che il petrolio deve c’entrare non poco in questi conflitti. La guerra del Golfo era paradigmatica, ma anche ai tempi di quella contro la Serbia qualche osservatore controcorrente e attento si era ricordato di un progetto per fare transitare attraverso il Kossovo in direzione dell’Europa occidentale gli idrocarburi fossili provenienti dai terminali sul Mar Nero(2). Probabilmente era un motivo secondario, però forse non così tanto, vista poi l’ampiezza della base di Camp Bondsteel, costruita in Kossovo vicino a oleodotti e corridoi energetici da una affiliata della compagnia petrolifera "Halliburton Oil" di cui Cheney era Direttore Generale(3). Poteva essere una coincidenza. Ma anche l’Afganistan è da anni considerato un territorio di transito preferenziale (rispetto all’invisa Repubblica Islamica dell’Iran) per gli idrocarburi fossili estratti dalla zona del Mar Caspio che saranno diretti verso l’Oceano Indiano. Infatti, un intervento in Afganistan contro i recalcitranti (e irriconoscenti) Talebani era già nell’agenda di Clinton, senza bisogno del destro poi "offerto" da Osama bin Laden. E, similmente, anche l’intervento nel Kossovo era già stato deciso molto prima del preteso "genocidio"(4). E ora di nuovo l’Iraq. A freddo. Anche qui, per pura coincidenza, troviamo il petrolio, esattamente la più grande riserva mondiale dopo l’Arabia Saudita. Petrolio di ottima qualità, economico da estrarre. E, ancora per puro caso, l’oro nero si trova anche in quasi tutti i Paesi elencati nell’agenda antiterrorismo degli Stati Uniti: Iran, Sudan, Indonesia. Il petrolio è quindi un collante evidente dei conflitti avvenuti e di quelli a venire. Ma esiste un’altra coincidenza ancora più interessante: tutti e tre gli "Stati canaglia" canonici sono in Asia. Inoltre, verosimilmente i prossimi obiettivi saranno decisi insieme ad Israele e quindi, riflettendo la strategia geopolitica di questo Paese, che insiste sul Medio Oriente e sull’Asia Centrale (via Turchia), saranno anch'essi concentrati in quest’area(5). Troppe coincidenze fanno, ovviamente, un piano lucido. Ma quale piano? Questo piano ha a che fare solo con il petrolio? O è un piano più vasto?

 

Il "cuore della terra" e il controllo delle "nuove vie della seta"

Ci sono molti motivi per ritenere che il controllo delle risorse energetiche costituisca un fattore importante di un calcolo più ampio. Secondo il mio modo di vedere i martoriati Iraq e Afganistan, i tristemente noti Kossovo e Bosnia, così come gli sconosciuti, ma anch'essi infelici, Azerbaijan e Georgia e il furbo Uzbekistan sono tutte tappe di quella che definisco "la conquista del cuore della Terra", cioè l’attuazione riveduta e aggiornata della classica "dottrina Brzezinski" di conquista del centro dell’Eurasia, o meglio ancora, prendendo a prestito il nome di una legge statunitense varata all’uopo nel 1999, il Silk Road Strategy Act, sono tappe verso il controllo delle nuove vie della seta, delle risorse energetiche che vi fanno capo e di quelle del Golfo. Ma per un fine strategico più complesso. Le tappe successive potrebbero essere l’Iran, la Siria o anche un’Arabia Saudita già adesso in pesantissima crisi economica e sociale e ulteriormente destabilizzata dal probabile dopo Saddam(6). Più facilmente, con i soldi e non con le armi, ovverosia alla moda dell’Uzbekistan (già da tempo infeudato a Stati Uniti e Israele), sono ormai a portata di mano il Kirghizistan e il Tagikistan(7). Interessante sarà vedere cosa gli Stati Uniti intenderanno fare con il Kazakistan, il cui petrolio è appetito da tutti e potrebbe essere essenziale per dare un senso economico ad un oggetto su cui vale la pena soffermarsi brevemente: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che unirà i pozzi petroliferi di un Azerbaijan ormai praticamente federato alla Turchia, a un grande terminale petrolifero proprio sulla costa mediterranea del (bellissimo) paese fondato da Atatürk, passando attraverso una Georgia che non vede l’ora di sbarazzarsi della presenza militare russa (che comunque tra qualche anno dovrà sgombrare il campo grazie ai Protocolli di Istanbul). Ma per sperare di fornire alla BTC la quota giornaliera di petrolio imposta dai calcoli economici bisognerà vincere le indecisioni del governo di Astana, alternativamente propenso verso la Cina, la Russia, l’Iran e l’Occidente. Per quanto riguarda il Turkmenistan, per ora apparentemente c’è poco da sperare dato che sembra soddisfatto degli accordi che legano i suoi ricchissimi giacimenti di gas naturale alla rete di gasdotti della russa Gazprom. E, come ben sanno gli Stati Uniti, le pipeline non sono solo corridoi energetici, ma anche diplomatici.

 

Il keynesismo di guerra delle pipelines.

La BTC, fortemente voluta dal dipartimento di Stato statunitense (e non, si noti bene, da quello dell’energia come sarebbe stato naturale) è un’opera quasi sconosciuta – e specialmente ai nostri più gettonati commentatori – ma per ora è il miglior esempio di attuazione nel nuovo impero formale degli USA di quel "keynesismo di guerra" di cui tanto si parla. Infatti benché non abbia attualmente una prospettiva molto profittevole questa pipeline ha, tuttavia, il nobile compito geostrategico di sottrarre il petrolio del Mar Caspio all’influenza russa, cinese e iraniana e di cementare la "nuova via della seta" Turchia-Georgia-Azerbaijan, che in realtà inizia in Israele e termina nel bel mezzo dell’Asia Centrale a ridosso della Cina. Un vero e proprio paradigma della strategia statunitense. Una strategia che ha l’obiettivo conclamato di contrastare, attraverso il controllo dei principali fattori strategici (posizione geografica e risorse energetiche), la possibilità che in Eurasia si formi un’aggregazione di forze che possa mettere in discussione la supremazia statunitense, la quale, per leggere a ritroso una spudorata ammissione del dottor Kissinger, è solo un altro modo per definire la cosiddetta "globalizzazione". Se questa strategia è evidente, se non altro perché dichiarata senza troppe remore dai responsabili statunitensi, ne sono però meno evidenti le motivazioni più profonde. Al di là delle apparenze, della propaganda e delle certezze anche di sinistra, ritengo che sia più che sensato porsi delle domande, se non altro a partire dalla constatazione che è alquanto strano che gli Stati Uniti sentano minacciata la propria supremazia proprio dopo che l’unica altra superpotenza, l’URSS, è collassata.

 

I diritti umani come transponder per bombardieri

La vulgata propagandistica narra di una lotta titanica contro un terrorismo internazionale senza obiettivi razionali ma motivato da istinti premoderni se non addirittura primordiali. Una lotta che si complementa con una missione storica: la difesa e l’ampliamento dei diritti umani, della sicurezza globale e della democrazia. Queste sono le motivazioni superficiali, ovvero quelle che si vuole far apparire in superficie, come la punta di un iceberg. Ma già un solo metro sotto il livello del mare spariscono, perché lì iniziano quelle più profonde. Come l’Afganistan insegna, diritti umani, sicurezza e democrazia non sono nemmeno "side effects" della guerra, che purtroppo sono di tipo ben differente. Al contrario, l’uso strumentale dei diritti umani equivale esattamente alla loro cerimonia funebre. Infatti il problema che pone questo scenario è che quando i diritti umani sono utilizzati come armi politiche o quando seguono compatibilità strategiche e non sono invece concepiti come diritti individuali e collettivi universali, indivisibili e inalienabili, diventano inservibili perché ogni richiamo ad essi rischia di diventare un transponder per bombardieri. La motivazione più recepita e variamente elaborata dalla sinistra è invece il petrolio. Come abbiamo visto è sicuramente più pertinente; tuttavia è parziale e questa parzialità rischia di metterne in ombra la pregnanza: perché infatti gli Stati Uniti avrebbero la necessità di acquisire militarmente questo controllo dato che, almeno apparentemente, hanno una forza politica ed economica tale da attrarre e condizionare qualsiasi paese produttore, dall’Arabia Saudita alla Russia? L’utile di breve e medio termine che ne ricaverebbero vale gli altissimi rischi economici, politici e militari che queste aggressioni comportano? La risposta non può consistere nel ribaltare gli assiomi statunitensi e vedere negli USA un "Regno del Male" con l’aggravante di essere guidato da un gruppo dirigente particolarmente ignorante, aggressivo e arrogante (cosa sicuramente vera) che ormai non riesce ad inventarsi nient’altro che la conquista imperialistica diretta delle risorse altrui. E’ chiaramente una spiegazione limitata, a volte frutto di legittima esasperazione, ma non accettabile, per il semplice motivo che in linea di principio anche le spiegazioni che prendono in considerazione fattori irrazionali o mitologici devono comunque inserirli in un quadro analitico razionale.

 

Il dominio statunitense: parabola di un ciclo sistemico di accumulazione del capitale

Un quadro analitico razionale che ritengo possa inquadrare con successo i fenomeni che stiamo osservando, da quelli più materiali a quelli più ideologici, ci è fornito dall’analisi dei cicli sistemici di accumulazione del capitale, così come è elaborata dalla scuola di pensiero detta del "sistema-mondo", raccolta attorno al "Fernand Braudel Center for the study of Economies, Historical Systems, and Civilizations", dell’Università di Binghamton, New York e guidato da Immanuel Wallerstein, Andre Günder Frank e Giovanni Arrighi e, in posizione più eccentrica e spesso critica, Samir Amin. In particolare, secondo Giovanni Arrighi ogni ciclo sistemico di accumulazione è egemonizzato da una singola potenza e presenta una fase iniziale di espansione materiale basata sulla produzione e sul commercio cui segue una fase di crisi e decadenza, caratterizzata da un disimpegno del capitale dalla produzione e dal commercio e da un suo impegno nella speculazione finanziaria internazionale (si veda G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo". Il Saggiatore, 1996). Questa espansione finanziaria è alimentata dalla concorrenza tra gli Stati per succedere alla potenza egemone in crisi, concorrenza che richiama il capitale attraverso un’espansione del debito pubblico e le spese per il riarmo che si ampliano a dismisura durante le fasi di crisi sistemica. Seguendo questa analisi arriviamo allora ad uno scenario sorprendente: gli Stati Uniti fanno quel che fanno non perché sono senza rivali ma perché la loro supremazia è in crisi. O, per essere più precisi, perché sono in crisi – e da tempo – i meccanismi di base di riproduzione di questa supremazia. Infatti, secondo la valutazione di molti studiosi, anche appartenenti a scuole di pensiero differenti, gli Stati Uniti stanno vivendo la fase di declino della loro egemonia nata con la fine della II Guerra Mondiale. In termini più ampi, la Superpotenza sta percorrendo la fase discendente di una parabola iniziata alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il suo apice negli anni tra il 1945 e i primi anni settanta del novecento. Di questa crisi potrebbero approfittare (anche qui, non per intrinseca perfidia o per odio antioccidentale, ma per occidentalissimi meccanismi concorrenziali) alcune potenze di dimensione continentale come gli stessi Stati Uniti: in primo luogo la Cina, poi la Russia e, in prospettiva, anche l’India. Questa partita tutta eurasiatica è però estremamente aperta e lo strapotere bellico statunitense la sta spostando su un piano militare. Cosa che è storicamente avvenuta in tutte le precedenti fasi di crisi sistemica individuate da Giovanni Arrighi.

 

Decadenza e violenza

La fine di un ciclo egemonico è infatti sempre un periodo di violenza, così come il suo inizio. Per la precisione l’egemonia è l’evoluzione di un dominio ottenuto con la forza e, parimenti, l’esaurirsi di un’egemonia favorisce l’uso della forza per far emergere un nuovo dominio. La violenza è dunque un modo iniziale e finale di esercizio del potere. L’esercizio maturo è ottenuto tramite l’egemonia, ovverosia facendo condividere gli scopi del potere anche a chi è soggetto gerarchicamente al potere stesso. Un’egemonia può basarsi su meccanismi ideologici e/o materiali e, si può dire, è compiuta quando li comprende entrambi. Meccanismi ideologici classici sono la fedeltà ad un gruppo etnico, ad una religione o il riconoscimento di un nemico o di interessi comuni, e quindi essi stabiliscono i modi in cui il potere è legittimato e può essere esercitato, anche in termini coercitivi (termini che sono ereditati dai meccanismi violenti con cui inizia la parabola dominio-egemonia-dominio e, per dirla con Marx, ricompaiono quando le cose non vanno più per il loro "corso ordinario"). Sono dinamiche che tendono a raggruppare, a definire spazialmente l’area di egemonia. In generale diremo che sono dinamiche che tendono a territorializzare. Dinamiche che vengono esaltate da eventi come Pearl Harbour o l’11 settembre, o in periodi come la Guerra Fredda. Meccanismi materiali sono quelli di carattere economico, il riconoscersi in un circuito commerciale o produttivo o anche finanziario, come attori e/o beneficiari. Questi meccanismi non sono necessariamente territorializzanti. Anzi spesso tendono alla deterritorializzazione, a rompere le frontiere spaziali. E ciò accade patologicamente quando una giurisdizione territoriale diventa un limite per l’accumulazione del capitale. A partire dagli albori del capitalismo nelle città-stato dell’Italia settentrionale, i due tipi di meccanismi di potere possono considerarsi – in linea di principio – appannaggio di gruppi separati, risultato di un lungo processo di differenziazione tra centri di potere politico territoriale e centri di potere economico, tra Stati e imprese. E’ a questo punto dell’evoluzione storica che si può parlare di "Capitale" come distinto dal "Potere" (territorialista).

 

La logica del Capitale e la logica del Potere

La divaricazione dei comportamenti di potere e capitale è innanzitutto spiegata dal fatto che il primo segue una logica di spazi-di-luoghi mentre il secondo segue una logica di spazi-di-flussi. La logica degli spazi-di-luoghi è funzionale alla razionalità del potere che è dettata da fattori come la formazione dello Stato, coi suoi meccanismi di riproduzione del controllo del territorio dove il potere è installato, quelli di espansione in ampiezza e le motivazioni ideologiche e morali che si di solito si intrecciano a questi fattori. La logica degli spazi-di-flussi è invece dettata da criteri come il calcolo del rapporto costi-benefici di ogni intrapresa e il controllo della capacità di acquisto, intesi come strumenti organici all’unico scopo della logica puramente capitalistica: generare denaro tramite denaro. E’ la particolare fusione di queste due logiche che permise l’ascesa delle città-stato italiane, dando l’avvio ai grandi cicli di accumulazione del capitale. Una storia che inizia col tentativo da parte dei mercanti europei di recuperare i mezzi di pagamento che si erano concentrati in Oriente e specialmente in Cina, aree che fino a metà del 1700 forniranno la quasi totalità dei prodotti manifatturieri mondiali. Ma perché il capitale si allea col potere tramite il meccanismo del debito pubblico? In sintesi questo matrimonio d’interessi è dovuto in alcune situazioni alla ricerca di protezione territoriale da parte del capitale apolide e, più in generale, ai calcoli del capitale rispetto le capacità del potere con cui si sta alleando di permettergli una successiva espansione materiale. Infatti ad ogni alleanza del capitale con il potere, stipulata durante la fase di espansione finanziaria, che è caratterizzata dal disimpegno del capitale dalle attività di trasformazione della natura, è seguita una fase di espansione materiale, caratterizzata invece dall’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, a scala ben maggiore di quella precedente. A sua volta il potere si allea col capitale per consolidarsi ed espandersi, ovvero per coprire i "costi di formazione dello Stato" e i "costi di protezione". Storicamente questa alleanza fa emergere una e una sola potenza capitalistica mondiale la cui egemonia caratterizza un ciclo sistemico di accumulazione. Questa potenza capitalistica sarà quella capace di accentrare il monopolio dei mezzi di pagamento e di "presentare i propri interessi come interessi generali di tutti gli altri agenti (stati-nazione, cittadini) o di un importante gruppo di essi" (Arrighi, op. cit.). E avendo rilevato il potere a spese della potenza egemone declinante (e degli altri contendenti), questa posizione gli permette, per l’appunto, di avviare la nuova grande espansione materiale di cui ha bisogno il capitale. Quando l’espansione materiale incomincia a diventare un limite alla valorizzazione del capitale allora inizia anche il divorzio tra il capitale e la potenza egemone in carica. Questo momento di passaggio è quindi indotto da una crisi generale di accumulazione "che segna il punto più alto del periodo di espansione materiale (D -->M) e dà inizio al periodo di espansione finanziaria (M -->D’)" (ibidem(8)). Come commenta Arrighi, D è segno di libertà di azione da parte del capitale: varie scelte di valorizzazione sono possibili. D -->M è uno specifico impegno del capitale che però viene sottoposto alle rigidità incorporate da M. Infine M -->D’ è un disimpegno grazie al quale il capitale riacquista una libertà d’azione, D’, allargata. E’ con questa dinamica che il capitale affronta la dialettica limite-condizione delle composizioni di potere territoriali storicamente date e le trasforma. Il disimpegno del capitale dalla produzione e commercio di merci inizia quando l’espansione materiale genera capitali che non possono incrementare "se non a patto di non essere più reinvestiti nelle attività che li hanno generati". La ragione di questo fenomeno risiede nel successo stesso dell’espansione materiale che genera pressioni concorrenziali di vario tipo (pressione verso l’alto dei salari, concorrenza per l’approvvigionamento delle materie prime, concorrenza sugli sbocchi commerciali dei prodotti, eccetera). Queste pressioni abbattono il profitto sotto quelle soglie che gli agenti capitalistici ritengono "tollerabili". Si ha allora una crescente fuoriuscita di capitali dall’investimento nelle attività produttive e commerciali e si genera una massa crescente di denaro in cerca di occasioni di profitto(9). La fase di espansione finanziaria, come si è detto, è resa possibile dalla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile, concorrenza che è indotta a sua volta dalla loro rivalità nella successione alla potenza egemone, ancora in carica ma uscente. Questa successione avviene facendo leva su due punti: a) l’acquisizione diretta o indiretta delle reti commerciali-industriali del soggetto egemone uscente; b) la centralizzazione dei mezzi di pagamento internazionali. L’espansione finanziaria è quindi legata a una fase di caos sistemico che genererà una nuova egemonia al cui interno saranno riorganizzati i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. L’inizio della fase discendente di un ciclo egemonico è segnalato da una crisi detta "crisi spia" (s1, s2, …, nel diagramma successivo) perché in effetti è la "spia" di una più profonda e fondamentale crisi sistemica, che lo spostamento verso l’alta finanza (la finanziarizzazione) dissimula e ritarda fino all’avvento della "crisi terminale" (t1, t2, …, nel diagramma). In realtà, "lo spostamento può fare molto più di questo: esso può trasformare per chi lo promuove e lo organizza, la fine dell’espansione materiale in un "momento meraviglioso" di nuova ricchezza e di nuovo potere, come è avvenuto, in misura diversa e secondo modalità differenti, in tutti e quattro i cicli sistemici di accumulazione. Tuttavia, per quanto meraviglioso possa essere questo momento per coloro che traggono maggiormente vantaggio dalla fine dell’espansione materiale dell’economia-mondo, esso non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole della crisi sottostante. l contrario è sempre stato il preludio a un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante con uno nuovo." (ibidem)

Il "momento meraviglioso" in piena crisi sistemica, di cui parla Arrighi, è stato rappresentato ai giorni nostri dalla nuova belle époque reaganiana-clintoniana che ha raddoppiato la classica belle époque a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

 

L’egemonia USA, ultimo ciclo sistemico storico

Fatte queste premesse, si possono individuare i seguenti cicli sistemici (adattamento da Arrighi, op. cit.):

 

 

 

 

Ci sono molte interessanti osservazioni sono indotte da questo diagramma. Le condensiamo qui indicando solo la continua accelerazione del ritmo (tempo sempre minore per l’ascesa, lo sviluppo e la sostituzione di un regime sistemico) e l’aumento della complessità organizzativa richiesta ad una potenza per poter emergere come dominante (lo si nota tramite la scala sull’ordinata da me aggiunta allo schema di Arrighi). Queste dinamiche sembrano confermare l’osservazione fatta da Marx nel terzo libro del Capitale, secondo la quale "il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso", ragion per cui la produzione capitalistica supera questa contraddizione "unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta". L’ultimo ciclo di espansione materiale inizia con la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra dei Trent’anni per la successione all’egemonia britannica (1914-1945) e con la I Guerra Fredda che permette a Truman di vincere le resistenze di un Congresso isolazionista ed estendere su una zona artificialmente limitata del mondo le idee di New Deal mondiale elaborate da Roosevelt (bisogna infatti notare che nei piani di Roosevelt non era contemplata nessuna suddivisione del mondo e anche l’Unione Sovietica vi rientrava a pieno diritto). Per vincere quelle resistenze l’amministrazione Truman invocava un’emergenza internazionale che il sottosegretario di Stato, Acheson, aveva "previsto" in Corea, in Vietnam o a Taiwan. Chissà come Acheson "indovinò" veramente perché, come ebbe a dire, "la Corea arrivò e ci salvò". Era il 1950. La I Guerra Fredda era ormai ufficialmente dichiarata. Il mondo veniva diviso in due e il New Deal poteva propagarsi su un "mondo" in formato ridotto e quindi gestibile: il "Mondo Libero". Come ci ricorda Gore Vidal, le resistenze e le proteste contro la politica estera di Truman e la complementare politica interna di sicurezza nazionale, da parte degli uomini del defunto Roosevelt (come ad esempio l’ex vicepresidente Henry Wallace) furono emarginate o criminalizzate anche con l’accusa di"comunismo" (sic!) (si veda Gore Vidal, "Le menzogne dell’impero". Fazi Editore, 2002) Fu così che sull’onda del più grande riarmo che il mondo avesse mai visto in tempo di pace si costituì lo strumento per continuare a sostenere gli aiuti all’Europa anche dopo la conclusione del Piano Marshall e impedire che innanzitutto il Vecchio Continente (o almeno la sua parte "libera") e poi il Giappone si isolassero dagli Stati Uniti. Gli organismi sovranazionali di governo del mondo, che nella visione di Roosevelt avrebbero dovuto sancire il carattere politico del governo mondiale, furono tenuti sullo sfondo. Le organizzazioni nate con gli accordi di Bretton Woods – cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – e l’ONU ebbero solo una funzione ancillare nei confronti del governo statunitense (anche la Corea fu un’operazione di "polizia internazionale") oppure furono ostacolate. L’unico effetto rivoluzionario degli accordi di Bretton Woods fu che la produzione del denaro mondiale passò sotto l’esclusivo controllo di una ristretta rete di autorità governative (in linea con il primato della politica sulla finanza codificato dal New Deal rooseveltiano). Tra il 1950 e il 1968 assistiamo così alla più grande espansione materiale della storia del capitalismo (la cosiddetta "Età dell’Oro del capitalismo"), all’ombra di un dominio formale statunitense, speculare a quello sovietico, ovverosia di una struttura gerarchica di Stati con a capo gli USA, dominio a cui cercarono di sottrarsi la Francia gaullista e Cuba. Ma tra 1968 e il 1973 si consuma la "crisi spia" del ciclo americano. La crescente concorrenza internazionale, con conseguente disimpegno dei mezzi di pagamento dagli investimenti produttivi e il progressivo impegno nella speculazione finanziaria – ad esempio nell’Eurovaluta – e una serie di tracolli politico-militari del campo occidentale (guerra del Vietnam, guerra del Kippur) congiunti all’impossibilità da parte delle autorità statali di tenere sotto controllo i flussi monetari generati dalle multinazionali, che seguendo la logica degli spazi-di-flussi sfuggono costantemente alle singole giurisdizioni pur basandosi su di esse, portarono alla fine del gold-dollar-standard (la base aurea mediata dal dollaro che aveva sostenuto il periodo di sviluppo materiale) e all’inedito fenomeno della stagflazione: la stagnazione accompagnata dall’inflazione. Il ciclo americano era entrato in crisi globale a meno di trent’anni dal suo inizio.

 

Un accanimento terapeutico: cercar di succedere a se stessi

Dopo tentativi del governo statunitense di ridurre alla ragione l’alta finanza, contrastando le manovre speculative con una continua inflazione e un continuo deprezzamento del dollaro, con Reagan assistiamo ad un processo opposto: la ricerca di nuova alleanza tra potere e capitale suggellata dalla trasformazione degli Stati Uniti nel più grande mercato offshore del mondo (deregulation) e con un riarmo sfrenato che trasformò il debito pubblico statunitense in un immenso aspirapolvere di capitali, così potente da risucchiare tutte le eccedenze dei Paesi industrializzati e uccidere sul nascere le speranze di "recupero" dei Paesi che, all’epoca, si dicevano "in via di sviluppo". La politica di Reagan con la sua II Guerra Fredda rappresentò dunque una duplicazione della I Guerra Fredda di Truman, ma per scopi totalmente opposti: mentre Truman voleva risolvere il problema della ridistribuzione della capacità di acquisto concentrata negli Stati Uniti, Reagan aveva invece il problema di riconcentrarla. Un’altra differenza consisteva nel fatto che con la sconfitta del Vietnam gli Stati Uniti abbandonarono la politica di impero formale per entrare in una fase di impero informale dove l’egemonia era esercitata tramite il mercato, più o meno come era successo nel 1800 con il periodo di libero mercato nel Regno Unito durante il precedente ciclo di accumulazione. Nel caso degli USA erano però il crescente deficit commerciale e l’enorme indebitamento pubblico che, congiunti alla supremazia monetaria, politica e militare fungevano da forza centripeta del mercato mondiale. Questa situazione si è estesa all’era Clinton, grazie all’esasperata finanziarizzazione dell’economia trainata dalla forza del dollaro (crescita della bolla speculativa) e alla massiccia terziarizzazione(10). Ed è così che negli anni novanta del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno vissuto il culmine del loro "momento meraviglioso". Ma altri meccanismi erano all’opera. L’egemonia statunitense reaganiana-clintoniana era strutturalmente debole. Al contrario dei precedenti storici, ultimo l'Impero Britannico, gli Stati Uniti non avevano, e non hanno, un surplus strutturale da reinvestire all’estero e favorire la crescita (subordinata) dei Paesi che ricadevano sotto il loro tramontante impero informale o che ricadranno sotto il loro futuro dominio. Ne segue che la crescita degli USA e del sistema capitalistico occidentale (Giappone ed Europa) lascia indifferenti, nei migliori dei casi, le sorti del restante i restanti 4/5 del mondo, dato che questo sistema, sia in termini economici, sia in termini culturali, sia in termini politici "non ha più nulla da proporre all’80% della popolazione del pianeta" mondiale (Amin).(S. Amin, "Oltre il capitalismo senile". Edizioni Punto Rosso). La supremazia, statunitense per utilizzare le categorie offerteci dall’approccio del sistema-mondo, si gioca allora esclusivamente sulle attività di formazione e di protezione dello Stato. E’ una supremazia che comunque permette agli Stati Uniti di convertire in forza gravitazionale che agisce sul mercato i loro disavanzi (quello dei conti con l’estero ha ormai superato il 430 miliardi dollari) e di porsi al primo posto nell’ambito degli armamenti e della ricerca scientifica, attività strettamente legata al riarmo, e che consentono loro di ipotecare almeno quattro dei cinque monopoli individuati da Samir Amin coi quali si esercita la supremazia mondiale: monopolio della tecnologia, controllo dell’accesso delle risorse naturali, monopolio dei mezzi di comunicazione e dei media, monopolio degli armamenti di distruzione di massa (cfr. Samir Amin, “Il capitalismo del nuovo millennio”. Edizioni Punto Rosso, 2001). Il quinto monopolio, il controllo mondiale dei flussi finanziari, è invece più problematico. Negli anni novanta si è assistito infatti ad una impressionante crescita asiatica nell’alta finanza. Fatti 100 i beni delle maggiori 50 banche mondiali, la percentuale giapponese è passata dal 18% del 1970 al 48% del 1990, mentre le riserve in valuta estera sono passate dal 10% del 1980 al 50% del 1994. Questa crescita è stata accompagnata da un’eccezionale espansione industriale. L’Unione delle Banche svizzere ha stabilito in un’analisi comparativa che a partire dal 1870 non c’è mai stata una crescita economica paragonabile a quella recente del Sud-Est e dell’Est asiatico iniziata poco dopo la crisi sistemica del 1968-1973 (+ 8% annuo di media). In più questa crescita è avvenuta in un periodo di stagnazione nel resto del mondo e si è propagata come un’onda dal Giappone alle Tigri asiatiche, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, e da lì alla Malaysia, alla Tailandia e all’Indonesia, fino a coinvolgere anche il Vietnam. E ora la Cina. Come si sa, i carghi provenienti dall’Oriente in Europa sono zeppi di merci, mentre quelli in direzione contraria sono mezzi vuoti, riproducendo singolarmente la situazione che avveniva all’inizio del capitalismo seicento anni fa. Similmente, come nella seconda metà dell’800 la produzione industriale britannica era ormai surclassata da quella statunitense e tedesca, allo stesso modo oggi assistiamo al declino industriale dell’Occidente a favore dei nuovi Paesi emergenti(11). "La contraddizione dell’egemonia mondiale USA ha innanzitutto a che fare con un percorso di sviluppo caratterizzato da alti costi di protezione e riproduzione, ovvero sulla formazione di un apparato militare di ampiezza globale ad alta intensità di capitale e sulla diffusione di uno schema di consumo di massa insostenibile e devastante che hanno finito per destabilizzare la potenza degli USA. Al contrario, l’eredità storica dell’Asia dell’Est di minori costi di riproduzione e di protezione hanno dato alle agenzie governative e d’affari della regione un decisivo vantaggio competitivo nella economia globale fortemente integrata. Se questa eredità verrà preservata, è un fatto ancora non chiaro." (Arrighi, op. cit.) Come risultato evidente di questa contraddizione, la sconfitta del Vietnam forzò gli USA a riammettere la Cina nei normali circuiti commerciali e diplomatici mondiali, ampliando il raggio dell’espansione e dell’integrazione regionale, in cui la Cina stessa, con la sua base demografica, le potenzialità di crescita e la disponibilità di forza-lavoro è diventata un gigante assoluto, attraendo quote crescenti di mezzi di pagamento. La Cina ha ormai superato il Giappone nella fornitura di merci agli USA e le autorità cinesi "hanno in mano il destino dei cambi dell’intero continente asiatico." (M. De Cecco, "La Repubblica, Affari & Finanza", 13-1-03) (12). Non è quindi un caso che gli Stati Uniti abbiano previsto che tra il 2017-2020 la Cina diventerà un avversario strategico. L’arcano profondo dell’attacco a Oriente sta forse proprio qui. Evitare che il capitale si allei con l’emergente stato-nazione-continente cinese. E per raggiungere questo obiettivo deve cercare, finché è ancora in tempo e finché ne è ancora capace, di arginare il più possibile la propria decadenza e di occupare, come sanno i giocatori esperti, il "centro della scacchiera". Ed è possibile, anche se con difficoltà. Le difficoltà nascono dal fatto che, per dirla in termini un po’ naïve, gli Stati Uniti non hanno assolutamente tanti soldi da spendere in guerre. E su questo il Movimento deve far leva e fa leva (giustissima la campagna "Non un uomo, non un soldo per la guerra"). Già quella del Golfo fu pagata per oltre il 70% dagli alleati e in special modo da Arabia Saudita, Emirati e – nota oggi dolente – da Giappone e Germania(13).La possibilità deriva invece dal fatto che in parziale contrasto con le fasi di crisi sistemica precedenti, oggi non si assiste ad una fusione della potenza finanziaria e di quella militare in un ordine più alto, ma si assiste invece ad una loro fissione: la centralizzazione della potenza militare negli USA da una parte e dall’altra la dispersione del potere finanziario in un arcipelago asiatico formato da stati-nazione, città-stato, diaspore, che non hanno né singolarmente né collettivamente nessuna possibilità di eguagliare la potenza militare statunitense né, per adesso, la possibilità di sostituirsi agli USA come centro organizzativo della finanza internazionale (Arrighi, op. cit.). Ma non è detto che questa situazione possa perdurare in eterno. Anzi, storicamente ciò non è mai successo. Non ci vorrà moltissimo tempo per arrivare al punto culminante della concorrenza per lo scambio politico con il potere finanziario. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo e le date 2017-2020 previste dai suoi strateghi lo stanno a testimoniare.

 

I diritti umani e le convenzioni internazionali sono pipelines: seguono linee geostrategiche.

In questa situazione gli Stati Uniti, se vorranno mantenere la posizione di potere, dovranno cercare di scambiare la propria capacità bellica e di formazione dello stato con il potere finanziario dell’Asia orientale, eventualmente "mediante una rinegoziazione dei termini dello scambio politico che ha legato il capitalismo dell’est asiatico al keynesismo militare globale degli Stati Uniti durante tutta l’epoca della guerra fredda." (Arrighi, op. cit.). Contemporaneamente dovrà cercare di bloccare sul nascere ogni ipotesi di aggregazione di nuovi complessi o alleanze territoriali capaci di competere con questo piano. I corollari comportamentali di politica internazionale a nostro avviso sono: 1 non permettere un’autonomia politica europea; cercare di indebolire la Russia e, soprattutto, tenerla il più possibile lontana dall’Unione Europea (e l’ammissione nella UE di alcuni Paesi dell’Est e della Turchia potrebbe favorire entrambe queste manovre); 2 indebolire la Cina e cercare di disgregarla (utilizzando a fondo, tanto per iniziare, la questione tibetana e poi, o contemporaneamente, quella degli Uiguri nello Xinjiang(14)); 3 separare l’India (il terzo gigante territoriale asiatico) dall’Asia orientale, centrale e dalla Cina (a questo fine il conflitto in Kashmir è una benedizione da coltivare, assieme alla politica dell’attuale governo, guidato dal Bharatiya Janata Party, che a dispetto del suo proclamato, e spesso facinoroso, nazionalismo indù sta consegnando l’India alle più aggressive multinazionali occidentali). E’ in questo quadro che inseriamo la lotta per il mantenimento e l’incremento dei cinque monopoli - e quindi anche la lotta per il controllo esclusivo delle risorse energetiche - e possiamo ipotizzare che l’attuale III Guerra Fredda, o III Guerra Mondiale, si svolgerà quindi, o meglio si stia già svolgendo, attorno a questi cinque monopoli e al loro intreccio, con la finalità sistemica di ricentralizzare negli USA l’accumulazione di capitali o, per lo meno, di ricentralizzare il comando sui suoi fattori. Io credo perciò che siamo rientrati in una fase di neo-imperialismo, simile all’imperialismo che caratterizzò l’ultimo atto del ciclo britannico, dove, però nessuna potenza neo-imperialista è ancora pronta a raccogliere le sfide della Superpotenza. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Fredda, ne stiamo quindi vedendo una terza replica che però non è più solo fredda anche se, forse, non sarà globalmente catastrofica, almeno per questo giro. Una pseudo guerra mondiale o una pseudo guerra fredda che a quanto si riesce a intravedere approderà, se avrà successo, a un’altra stagione di imperialismo formale statunitense, ovvero a un nuovo ordine gerarchico tra Stati con a capo gli USA. In termini generali, gli Stati Uniti stanno rifluendo dall’egemonia al dominio, chiudendo, ad un più alto livello, il cerchio iniziato nel 1945-1947. Infatti, se con Bush padre e con Clinton c’era stata una fase in cui si era pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo rooseveltiano, rivitalizzando e ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di governo internazionali, ora con Bush figlio sembra invece di essere ritornati ad un ridimensionamento unilateralista alla Truman, con le stesse tinte nazionalistiche e con la stessa tendenza all’impero formale. E come già successe allora con De Gaulle, la Francia cerca anche oggi di sganciarsi, seguita però stavolta.da diversi Paesi, tra cui l’altro pilastro dell’Unione Europea, la Germania, aprendo così un conflitto tra le due sponde dell’Atlantico e all’interno della stessa Unione. Conflitto ampiamente "previsto" con stizza e minacce da Martin Feldstein, ora consigliere di Bush, alla vigilia dell’introduzione dell’Euro (cfr. "Il Sole 24 Ore", novembre 1997). Condoleeza Rice dice quindi molto di più di quanto intenda fare quando paragona questo periodo agli anni 1945-1947. Perché questa, suo malgrado corretta, affermazione ci riporta alla mente l’invocazione dell’amministrazione Truman per una "emergenza internazionale" che infatti, come ricorda il professor Chalmers Johnson, venne riproposta tale e quale da D. Cheney, D. Rumsfeld e dagli altri allegri compari del Project for a New American Century, in un loro rapporto del settembre 2000, dove si dichiararono in attesa di "un evento catastrofico e catalizzante come una nuova Pearl Harbour"(15). Come accadde al sottosegretario di Stato di Truman, anche Cheney e Rumsfeld si rivelarono a loro modo "preveggenti" e con l’11 di settembre 2001 ebbero la loro auspicata nuova Pearl Harbour che legittimò la reazione unilaterale e dilagante degli USA. Tuttavia la nuova situazione, cioè il collasso dell’unico possibile contendente degli Stati Uniti, rischia di trasformare questo unilateralismo in un limite fondamentale all’esercizio del potere. Se infatti la strategia da Truman a Reagan si basava sulla possibilità di ritagliarsi una fetta di mondo su cui poter esercitare prima il proprio dominio e, in seguito, la propria egemonia, ora l’espansione globale di questa fetta rischia di portare a ciò che è stato definito un "sovradimensionamento strategico", ovverosia ad avere "interessi così estesi che sarebbe difficile difenderli tutti nello stesso momento e quasi altrettanto difficile abbandonarne uno qualunque senza correre rischi anche maggiori." (P. Kennedy, "Ascesa e declino delle grandi potenze". Garzanti, 1993)

 

Il Movimento e la guerra, quintessenza della mercificazione della vita umana

Se si accetta questa interpretazione della realtà, allora il rifiuto etico della guerra è costretto a fare in conti con un obiettivo immane: trasformare radicalmente la logica di sviluppo economico, di formazione dello stato e di esercizio della forza che è stata seguita negli ultimi seicento anni. O almeno contrastarla. Un compito non facile, lungo e complesso. Ma non impossibile, perché l’avversario non è poi così invulnerabile come si vuole presentare. Ma è vulnerabile non perché un’organizzazione di fanatici è capace di bombardarlo con un’azione terroristica, frutto avvelenato proprio della logica da contrastare, o perché un satrapo asiatico, altro frutto di questa logica, può in teoria infliggere sensibili perdite agli eserciti che vogliono aggredirlo. Al contrario, lo è perché esso stesso nel corso del tempo ha prodotto il proprio principale anticorpo: la coscienza dell’indivisibilità e dell’universalità dei diritti umani. Una coscienza che nello stesso campo occidentale è cresciuta in modo esponenziale come reazione all’iperconsumismo, alla dilatatissima alienazione economicistica e all’esasperata polarizzazione delle ricchezze, ovverosia come reazione al radicale attacco a valori di base politici, etici, sociali e religiosi elaborati e conquistati nel corso di secoli. Tutto ciò è testimoniato proprio dal carattere composito del movimento contro la globalizzazione liberista e le sue guerre, la cui varietà non dovrebbe destare meraviglia se si pensa che "il capitalismo innovativo e globale non è affatto soltanto anti-proletario (come continuano ad opinare i veteromarxisti operaisti), ma è anche e soprattutto anti-borghese, perché l’ethos nobiliare-borghese si è sempre ostinato a mantenere sfere vitali non mercificabili, o per lo meno non interamente mercificate." (Costanzo Preve, "Il Bombardamento Etico", Editrice CRT, Pistoia, 2000, pag. 39)(16). E non è difficile allora capire perché un’opinione pubblica trasversale, avvilita dall’arroganza economica e politica del potere, già allarmata per i tentativi di privatizzazione della vita cresciuti sull’onda dei successi della bioingegneria e preoccupata per il cattivo stato di salute del pianeta avvertibile tutti i giorni, consideri istintivamente e implicitamente (e giustamente) lo scambio morti-per-petrolio – il più evidente tra gli scambi proposti dall’amministrazione Bush – come l’inaccettabile quintessenza della mercificazione della vita umana. Ed è infatti mia opinione che la guerra, e specialmente la guerra moderna, sia da rubricarsi proprio sotto questa voce. Allo stesso modo possiamo aggiungere che, con tutte le sue contraddizioni, lo stesso risveglio religioso di questi anni non è altro, e proprio da un punto di vista squisitamente laico, che una manifestazione del fatto che l’essere umano è un animale ideologico, ermeneutico e metafisico, e non lo schiavo di una "mano invisibile" che lo inchioda alla pura materialità. E’ questa "dimensione antropologica transtorica" - per usare un concetto di Samir Amin - a spingere l’uomo a fare la propria storia. Ed è la moderna pratica politica laica il terreno più favorevole per compierla, perché "la democrazia moderna si attribuisce subito il diritto d’invenzione, a fare qualcosa di nuovo. Sta tutto qui il senso del segno di uguaglianza che la Filosofia dei Lumi pone tra Ragione ed Emancipazione." (S. Amin, "Oltre la mondializzazione". Editori Riuniti, 1999). Fare la propria storia vuol dire emanciparsi dall’alienazione mercantilistica e capire che un nuovo ciclo di espansione materiale capitalistico presupporrebbe una fase di conflitti crescenti e senza esclusione di colpi e, inoltre, sia che esso venga incentrato di nuovo sugli Stati Uniti sia, a maggior ragione, che venga incentrato su un nuovo stato-continente come la Cina che deve recuperare velocemente le fasi "pesanti" di sviluppo perdute, equivarrebbe con ogni evidenza ad un collasso ecologico-sociale planetario. L’emancipazione dall’alienazione mercantilistica non può quindi limitarsi all’Occidente, ma deve estendersi in ogni parte del mondo, Asia in primo luogo. E sembra anche evidente che questa emancipazione non è più appannaggio esclusivo di un soggetto sociale specifico, come nella tradizione marxista, ma di una rete di soggetti in larga misura ancora da definire e, addirittura, da identificare e che possono variare da Paese a Paese, eppure già reali e operanti. L’alternativa a questa emancipazione potrebbe non esserci, né singolarmente né come specie: "[…] prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia umana, non è dato sapere." (G. Arrighi, op. cit.)

 

 

 

NOTE

 

 

(1) Consulente di una transnazionale statunitense specializzata in informatica e in servizi nel settore petrolifero-energetico. Collaboratore di istituti di ricerca in Europa e in Asia nel campo dell’algebra della logica, sistemi esperti e analisi logico-algebrica di informazioni incomplete, è autore di memorie scientifiche e ha tenuto seminari e conferenze in Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Polonia, Romania e Stati Uniti. Per un incarico di consulenza, ha vissuto in Turchia dall’inverno 2000 all’estate 2001. Durante questo soggiorno ha approfondito la propria documentazione sulla politica interna e internazionale di quel paese e delle repubbliche centroasiatiche e transcaucasiche. E’ membro della Chiesa Evangelica Metodista, al cui interno ha promosso la discussione sulle politiche neo-liberiste. (http://www.surf.it/logic)

 

(2) E’ il caso di Sergio Cararo (si veda il sito http://digilander.libero.it/acta_imperii/balcani01.html).

 

(3) I termini più generali della questione iugoslava sono verosimilmente quelli discussi da Alberto Negri in http://www.sottovoce.it/conflitti/corridoi1.htm

 

(4) Così Gerard Segal, ex direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra, un anno prima dell’intervento contro la Serbia: "Dovremo intervenire unilateralmente in Kossovo? La risposta sarà in larga misura un calcolo politico, ma l’interrogativo solleva questioni fondamentali attinenti alle finalità della potenza militare" (La Repubblica, 10-7-1998).

 

(5) Con la probabile aggiunta eccezionale e precauzionale, appena il gioco si farà duro, della perenne spina nel fianco: Cuba.

 

(6) Il reddito medio dell’Arabia Saudita è diminuito di più del 50% dall’inizio della reaganomics ad oggi.

 

(7) "Non con le armi" non è però in ultima analisi una descrizione esatta. La guerra per sottrarre all’influenza Russa i Paesi centrasiatici e transcaucasici si sta combattendo in Cecenia. La Cecenia, infatti, prima della guerra alla Serbia è stata la riprova che la Russia era così debole da non riuscire a venire a capo di un conflitto locale in casa propria (figuriamoci all’estero); dopo l’11 settembre è stata la merce di scambio per ottenere il lasciapassare per l’Asia centrale ex-sovietica, mentre oggi costituisce la situazione di crisi che continua a mantenere la Russia sotto pressione militare e politica. Il conflitto in Cecenia è uno dei tanti il cui compito è quello di non finire, a totale dispetto e dispregio delle sofferenze che provoca.

 

(8) Nelle classiche formule di Marx, D sta per capitale (denaro), M sta per "merci" (ma possiamo anche intendere M come mezzi o strumenti dell’espansione materiale) mentre D’ è il capitale accresciuto grazie a quei "mezzi"(D'=D+x).

La formula con cui Marx descrive la logica generale di accumulazione del capitale è quindi D -->M -->D’, mentre quella con cui descrive l’accumulazione finanziaria tramite interessi è D -->D’ (il denaro che "procrea" direttamente denaro). Arrighi, su un diverso piano di astrazione, spezza la formula generale di Marx in due momenti storico-logici separati: l’impegno del capitale nella produzione e nel commercio di merci, D -->M, che dà luogo alla dinamica di accumulazione D -->M -->D’ (espansione materiale), e il disimpegno dalla produzione materiale e progressivo impegno nelle attività finanziarie, M -->D’, che innesca il meccanismo di accumulazione abbreviato D -->D’ (espansione finanziaria).

Marx definisce la finanziarizzazione come "una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria", associandola così all’inizio del modo di produzione capitalistico, che in quanto tale è caratterizzato invece dalla formula D -->M -->D’ (cfr. , "Il Capitale", Libro I, Vol 3, Sezione VII, cap. 24). Se quindi si concepisce il capitalismo come un unico ciclo sistemico, una nuova fase di finanziarizzazione sarà vista come un sintomo di putrefazione (Lenin) o di decadenza (Keynes) del sistema. E’ di fatto il grande schema a cui si attiene anche Samir Amin, sebbene in modo altamente creativo e per nulla meccanico (dato che al suo interno contempla possibili ‘sottocicli’). Schumpeter, al contrario considerava la finanziarizzazione sintomo della fine di un ciclo di accumulazione e, nella sua scia, Arrighi la considera caratteristica della fine di un ciclo sistemico di accumulazione e di inizio di un ciclo successivo. Va allora notato che lo stesso Marx non parla di un’unica fase iniziale di accumulazione, ma di diverse fasi di accumulazione originaria che si sono susseguite nella Storia, ognuna basandosi sui frutti di quella precedente (Venezia, Olanda, Inghilterra e, presagiva, Stati Uniti). Tuttavia lo schema dei cicli sistemici di accumulazione non è derivabile direttamente da Marx (e in ciò l’interpretazione di Amin sembra più ortodossa di quella di Arrighi).

 

(9) I famosi "capitali fluttuanti speculativi" oggetto della Tobin tax, cavallo di battaglia di ATTAC, hanno questa origine.

 

(10) Attualmente è calcolato che il rapporto tra transazioni commerciali e transazioni finanziarie sia 1:80, cifra che illustra bene cosa si intenda per “disimpegno dalla produzione e dal commercio”.

 

(11) La partecipazione dell'apparato produttivo di Giappone, Germania e USA all'economia internazionale è passata dal 54% nel 1961 al 40% nel 1996 (IFRI-Ramses).

 

(12) La diaspora capitalistica cinese nel mondo ha contribuito in modo fondamentale a questo processo, sia finanziando direttamente la crescita cinese, sia fungendo da intermediaria finanziaria e commerciale (modello "One Nation, Two Systems").

 

(13) Per gli USA e gli UK il presidente Chirac è "un verme" non perché senza la Francia non si possa fare la guerra materialmente, ma perché la Francia trascina le posizioni di molti Paesi, in primo luogo la Germania, senza i quali è difficile farla finanziariamente.

 

(14) "Una volta che il momento è maturo, non sarà impossibile che i nazionalisti separatisti dello Xinjiang, assistiti da forze ostili interne e internazionali, si mettano a contrastare il governo locale e quello centrale e chiedere supporto alla comunità internazionale, proprio come i separatisti albanesi nel Kossovo, Yugoslavia. In quel momento non possiamo escludere la possibilità che il blocco militare della NATO guidato dagli USA agisca contro la Cina in un modo o nell’altro, anche con mezzi militari, con il pretesto di salvaguardare i diritti umani dei gruppi etnici di minoranza." Al Yu, "Kossovo Crisis and Stability in Cina’s Tibet and Xinjiang", Ta Kung Pao, FBIS.CHI-97-223, August 11, 1997.

 

(15) Cfr. Chalmers Johnson, "I missili di oggi sull’Iraq sono partiti 50 anni fa". Supplemento al N. 5 di Carta, febbraio 2003.

 

(16) "A proposito infine della tradizione culturale borghese, l’attuale globalizzazione non ‘occidentalizza’ affatto il pianeta (come sostengono noti confusionari sempre pubblicati, recensiti e pubblicizzati), dal momento che essa globalizza un modello di vita rigorosamente post-occidentale, posteriore al declino comune delle occidentalissime classi borghese e proletaria, e nichilisticamente posteriore a tutte le forme di saggezza e di religione occidentali." (Costanzo Preve, op.cit. pag. 47)

 

 

 

mardi, 09 juin 2009

L'Italia e il grande gioco asiatico

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Archives - 2003

 

 

Valerio Ricci :

L'Italia e il grande gioco asiatico

 

Il precedente della guerra del golfo

Obiettivi reali e obiettivi dichiarati nella guerra moderna

L'impero marittimo americano ed il controllo dell'Hearthland

La nuova via della droga. La battaglia degli oleodotti

L'importanza di una politica di potenza italiana ed europea.

 

Prima di ordinare ai propri generali l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein ebbe un lungo colloquio con l’ambasciatrice americana a Bagdad. La guerra con l’Iran era finita da pochi anni e gli irakeni credevano di poter riscuotere i crediti internazionali maturati in precedenza. Gli USA in effetti, preferendo l’ideologia Baath del laico Irak alla dottrina Sharia della teocrazia di Teheran, in pochi anni avevano garantito a Saddam Hussein un potenziamento militare straordinario e l’impunità per l’enorme utilizzo di gas tossici contro gli iraniani. Nel 1991, forte di un appoggio occidentale pluridecennale, il dittatore di Bagdad era convinto di poter occupare il piccolo ed opulento emirato confinante rischiando al massino una condanna formale dell’ONU o, al limite, un conflitto di bassa intensità. L’ambasciatrice USA, avendo ricevuto istruzioni tanto generiche quanto sospette da Washington, sembrò confermare le impressioni di Saddam Hussein. L’invasione del Kuwait, invece, portò l’Irak al massacro. Gli USA, bandendo in fretta la crociata umanitaria, scatenarono l’inferno contro Bagdad. La guerra durò circa un un e mezzo ed il Kuwait venne “liberato” con estrema facilità. Bush senior tuttavia, invece di proseguire il conflitto sino alla capitale irakena, fatto che avrebbe comportato la destituzione di Saddam Hussein, preferì porre fine alle ostilità.

 

L’obiettivo dichiarato ovvero la realizzazione di un’operazione di polizia internazionale era stato centrato. Ma, soprattutto, venne raggiunto l’obiettivo reale dell’intervento militare americano nel golfo. La guerra aveva permesso a Washington, per la prima volta nella storia, di imporre un controllo militare diretto sui giacimenti petroliferi del golfo persico. Gli americani, escludendo clamorosamente il loro tradizionale partner mediorientale di Tel Aviv, avevano allestito a tale scopo una coalizioneinternazionale forte del sostegno di numerosi paesi arabi più o meno moderati: Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Oman, Qatar etc. Gli USA, in questo modo, poterono stanziare per la prima volta le proprie truppe in Arabia Saudita. Oggi, a più di dieci anni dal conflitto, sono ancora lì. I nuovi equilibri determinatisi a loro favore spiegano perché gli americani abbiano imposto una relativa pacificazione dell’area del golfo, minacciata ‘potenzialmente’ dalla presenza del dittatore di Bagdad ancora solidamente al potere. E proprio la ‘minaccia” permanente irakena a giustificare oggi le basi militari americane in Arabia Saudita. La pacificazione del golfo ha trovato sin dall’inizio due grandi avversari i cui interessi attuali da una parte confliggono e dall’altra convergono. Se il fondamentalismo islamico, infatti, considera la liberazione della Mecca un obiettivo prioritario, il nazionalismo israeliano vede nella “pace” americana in medio oriente un ostacolo oggettivo alla sua politica di espansione nei territori palestinesi.

 

Il precedente significativo della guerra del golfo consente di evidenziare un aspetto peculiare della guerra moderna, a suo modo un segno eloquente dei tempi, per cui nei conflitti militari l’obiettivo reale non coincide mai con quello ufficialmente dichiarato. Quest’ultimo assume un’importanza del tutto relativa. Le stragi dell’11 settembre hanno motivato la reazione militare anglo-americana contro il regime talebano di Kabul, colpevole di aver protetto Bin Laden e la sua multinazionale del terrore. Se però la guerra del golfo costituì l’effetto evidente della strategia per il medio oriente concepita da Bush senior e dalle lobbies che lo sostenevano, la genesi dell’attuale crisi mondiale appare molto più complessa, chiamando in causa una pluralità di soggetti e di interessi contrapposti, anche all’interno dello stesso mondo occidentale, non facili da decifrare dall’esterno. L’abbattimento di un aereo siberiano da parte della contraerea ucraina e la tragedia del 12 novembre, in tal senso, hanno posto interrogativi inquietanti. Quello che rileva in tale sede, tuttavia, è l’individuazione delle ragioni reali dell’intervento militare anglo-americano nel cuore dell’Asia. Anche in tal caso la coalizione planetaria allestita in grande fretta è nata con l’obiettivo dichiarato di realizzare un’opera di polizia internazionale, consistente in concreto nella “liberazione” dell’Afghanistan e nella cattura del terrorista saudita. Ma l’obiettivo reale è di ben altra natura.

 

L’Afghanistan, stretto tra l’Asia centrale e le regioni che si affacciano sull’oceano indiano, è situato in una regione di estrema rilevanza geopolitica, soprattutto per gli USA che costituiscono per definizione un impero essenzialmente marittimo. La talassocrazia statunitense si estende da sempre lungo l’Oceano Atlantico trovando nella massa continentale centroasiatica, ad essa tradizionalmente estranea, un naturale bilanciamento del suo potere. Questa regione, denominata Hearthland dal geopolitico inglese sir Halford Mackinder, costituirebbe a livello strategico il “perno” del mondo. Mackinder sosteneva che in linea teorica il controllo dell’Hearthland consente il controllo dell’isola del mondo (l’insieme della massa continentale eurasiatica e dell’Africa) mentre il controllo di quest’ultima permette a sua volta il dominio sul mondo stesso. Se gli americani, già dominatori degli oceani, arrivassero in un futuro non immediato a controllare l’Hearthland, si determinerebbe a loro favore una situazione di egemonia mai raggiunta sin ora. La stampa iraniana vicina all’Ayatollah Khamenei, del resto, ha interpretato le manovre USA nel cuore dell’Asia come l’effetto di una nuova strategia americana finalizzata nel lungo periodo alla definizione di un “mondo unipolare”. Prima dei fatti dell’11 settembre le prospettive geopolitiche degli USA erano assai differenti e l’unipolarismo a stelle e strisce sembrava un’ipotesi impraticabile. La grave crisi economica del gigante economico americano, la graduale crescita dei partners occidentali, l’irrompere anche a livello economico di potenze extraeuropee dotate di risorse nucleari, si erano saldate ad una forte tendenza neoisolazionista affermatasi nello stesso impero americano, lasciando presupporre un futuro scandito da un inedito policentrismo geopolitico.

 

Questa tendenza neoisolazionista ha trovato però una forte opposizione sia all’interno degli stessi potentati USA sia negli alleati storici degli americani in medio oriente, gli israeliani, in rotta con la famiglia Bush e le sue lobbies di riferimento dai tempi della guerra del golfo. L’abbattimento delle torri gemelle e l’attacco al Pentagono hanno generato una crisi mondiale talmente forte da mischiare completamente tutte le carte in tavola. La linea Huntington, fondata sulla formula del conflitto tra civiltà e rigettata dall’amministrazione Bush, torna prepotentemente di attualità. Una presenza militare nel cuore dell’Asia, sino a ieri, sembrava impensabile. Oggi le divisioni di montagna dell’esercito USA, giustificate dalla necessità di intervenire rapidamente in Afghanistan, sono stanziate presso le basi militari uzbeke, a metà strada tra i giacimenti petroliferi del Caspio e le regioni occidentali della Cina. L'Uzbekistan, governato da un regime autoritario in lotta con il fondamentalismo islamico, è uno dei paesi dell'area centroasiatica più ricco di risorse energetiche al punto di meritare citazioni particolari, certo non casuali, nell'ultima fatica editoriale di George Soros.

 

Washington ha precisato da subito che si sarebbe trattato di una guerra molto lunga (di cui la liberazione di Kabul ha rappresentato solo la prima fase) lasciando intendere una presenza continuativa del proprio contingente militare nella repubblica postsovietica. Gli americani, in questo modo, hanno aperto la partita per il controllo dell'Hearthland che si giocherà in modo decisivo nei prossimi anni, muovendo innanzitutto dall'attuale e non agevole gestione del governo afgano postalebano  del presidente Rabbani. Questo governo, in ogni caso, non potrà prescindere dal sostegno determinante dell'etnia di maggioranza pashtun. L'unica attività commerciale svolta in Afghanistan negli ultimi decenni è stata quella della droga: Kabul è il principale produttore mondiale di oppio. Il 90% dell'eroina presente nel mercato europeo esce da laboratori afgani e pakistani. La lotta internazionale alla produzione e al traffico di droga, negli ultimi anni, ha assunto tratti molto spesso grotteschi tali da suscitare sospetti negli osservatori più maliziosi. Lo United Nations Drug Control Program, diretto da Pino Arlacchi, già nel 1997 iniziò un'opera di pressione verso il regime afgano per indurlo a rinunciare alla produzione di oppio, proponendo in alternativa la conversione dei campi in coltivazioni di mandorle e albicocche. A tale scopo Kabul percepì un finanziamento di 16 milioni di dollari. Gli effetti dell'indulgente politica dell'UNDCP furono disastrosi perché aumentò sino a garantire, nel 1999, un raccolto annuo più che duplicato rispetto al precedente.

 

Il solo Afghanistan in quell'anno immagazzinava 4691 tonnellate di oppio rispetto alle 6000 complessive mondiali. Lo United Nations Drug Control Program aveva fallito clamorosamente e qualcuno si interrogò sulla singolare fretta di Kabul nell'accumulare quantità di oppio che eccedevano, di gran lunga, la "domanda" del mercato europeo della droga. Nel 2000 la produzione continuava a marciare spedita quando il mullah Omar emise un decreto di divieto assoluto della coltivazione di oppio. Sul finire della primavera del 2001, quasi d'incanto, i satelliti russi ed americani attestavano che le coltivazioni dell'oppio erano state eliminate da tutto il territorio allora controllato dai talebani, pari al 90-95% dell'Afghanistan. Le coltivazioni permanevano solo nelle zone come Badakshan che già prima della guerra erano controllate dall'alleanza del nord. Malgrado i toni trionfalistici assunti da qualche media, tuttavia, il problema droga in Afghanistan non solo permaneva, ma assunse toni ancora più preoccupanti. L'oppio immagazzinato negli ultimi anni, secondo i dati forniti dalla Conferenza Interpool già nel 2000, consente all'Afghanistan di rifornire i tossicodipendenti europei per i prossimi tre anni.

 

 I bombardamenti anglo-americani avrebbero reso impossibile la coltivazione dell'oppio e gli osservatori più smaliziati riflettono sulla sorprendente lungimiranza dimostrata dai talebani nella programmazione della produzione che, tra l'altro, ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi della droga acquistata in territorio afgano. Questo rialzo dei prezzi è pari al mille per cento. Le ultime novità del mercato dell'eroina, inoltre, riguardano anche le rotte del traffico europeo. Un elemento di novità ha messo in crisi la tradizionale rotta balcanica che, muovendo dall'Afghanistan, supera l'Iran, passa la Turchia e attraverso il corridoio kosovaro raggiunge l'Europa. L'Iran infatti, preoccupato dall'aumento straordinario del consumo di oppio nel proprio territorio, ha intrapreso una lotta reale al traffico di eroina arrivando ad intercettare, da solo, circa la metà dell'eroina sequestrata in tutto il mondo. Questo ha indotto i narcotrafficanti ad impegnare una nuova rotta, quella baltica. Essa descrive una traiettoria che partendo dall'Afghanistan taglia le repubbliche postsovietiche, raggiunge Mosca e di lì, muovendo verso il Baltico, scende poi nel resto d'Europa. Nel 2000 l'Interpool annunciava il crescente ruolo acquisito dalla nuova rotta baltica che oggi si dimostra perfettamente alternativa a quella balcanica.

 

Il prezzo dell'eroina sale vertiginosamente durante il tragitto lungo questi paesi privi, sino a ieri, della presenza militare americana. Essa, al confine afgano costa dai 2 ai 4 mila dollari al chilo, in Kirghizistan 7 mila mentre a Mosca balza a 50 mila. Nel mercato europeo, da ultimo, può arrivare ad un prezzo pari a 100 mila dollari al chilo. Le necessità logistiche della guerra all’Afghanistan hanno consentito alle truppe americane di trovarsi di nuovo in un territorio che va ad intrecciarsi con le rotte dei trafficanti di eroina in viaggio verso l’Europa. Persino quotidiani come il “Corriere della Sera”, al di sopra di ogni sospetto di anti-americanismo preconcetto, hanno raccontato la “singolare” vicenda del Generale Dostum, militare dell’Alleanza del nord notoriamente legato alla CIA. Dostum, ricercato dai taliban, ma inviso anche all’alleato Massud (ucciso proprio pochi giorni prima delle stragi americane), per alcuni anni si nascose tra l’Iran e la Turchia. Dopo la tragedia dell’11 settembre è tornato in Afghanistan, puntando direttamente alla liberazione del suo vecchio “feudo” Mazar-i-Sharif. Raggiunto il suo obiettivo verso la metà dello scorso novembre, il Generale Dostum ha trovato pressoché intatti gli hangar della sua linea aerea privata, utilizzata in passato per esportare l’oppio a Samarcanda. Ad inizio degli anni novanta sia la CIA sia l’ISI, il servizio segreto pakistano, iniziarono a lavorare in Afghanistan nel contesto di un quadro operativo che consentì successivamente l’ascesa al potere dei talebani.

 

L'obiettivo era quello di porre le condizioni idonee alla realizzazione, in un futuro non immediato, di un oleodotto e di un gasdotto che, muovendo dalle repubbliche centroasiatiche postsovietiche, attraverso l’Afghanistan ed il Pakistan, raggiungessero il mare arabico. L’esecuzione di un questo progetto avrebbe determinato una situazione oggettivamente sfavorevole agli interessi russi ed iraniani. Le grandi compagnie anglo-americane, consapevoli delle enormi risorse di petrolio e di gas naturali offerte dalle regioni che si affacciano sul Caspio, da tempo studiano per questo motivo strategie di intervento nel cuore dell’Asia. Le ricerche americane del resto, effettuate in Alaska e nelle terre del nord, hanno fornito risultati deludenti, accentuando ulteriormente l’importanza strategica dell’area centroasiatica in termini di potenziale energetico. Nel frattempo è entrato in funzione l’oleodotto Tangiz-Novorossijk che, saldando il Kazakistan alle coste russe del Mar Nero, ha innescato un business internazionale di proporzioni gigantesche. Questo oleodotto esalta il ruolo geoeconomico della Russia e potrebbe determinare per l’Europa, da sempre sottoposta al “ricatto” del petrolio, una svolta di portata epocale. Nel maggio scorso l’ENI, giocando d’anticipo, ha acquisito i diritti di sfruttamento dei giacimenti della regione russa di Astrakhan che si affaccia proprio sui pozzi petroliferi di Tangiz.

 

Un altro progetto di oleodotto, altrettanto rilevante sotto il profilo economico, è quello di Kashagan-Kharg Island. Esso prevede il collegamento del Caspio con le coste iraniane. Il 23 luglio scorso del resto, proprio nel Caspio, Londra e Teheran avevano rischiato un serio incidente diplomatico: la marina militare iraniana respinse verso la costa azera una nave della British Petroleum che stava effettuando prospezioni ritenute sospette. Oggi la crociata “umanitaria” nel cuore dell’Asia consente alle multinazionali anglo-americane di tornare in gioco nella partita del pètrolio e del gas, determinando un nuovo rimescolamento delle carte. I progetti di oleodotti e gasdotti diretti sia verso le coste sia verso l’interno del Pakistan, tornano prepotentemente di attualità. E infatti evidente che chiunque voglia recitare un ruolo di primo piano nella nuova epoca, sorta con la tragedia dell’11 settembre, non può essere estromesso dal “grande gioco” asiatico. Si deve considerare, a tale proposito, che la situazione politica dei paesi adiacenti al Caspio è fortemente instabile. Questo lascia supporre che le grandi potenze mondiali, formalmente concordi nell’azione di liberazione di Kabul, hanno avviato dietro le quinte una contesa a livello d'intelligence che troverà nelle numerose conflittualità etniche presenti nella regione uno dei suoi punti chiave. Gli USA hanno fatto la prima mossa. La presenza militare anglo-americana in Uzbekistan infatti, giustificata dalle necessità logistiche della guerra contro il regime taliban, ha sancito il nuovo orientamento di politica internazionale del regime di Tashkent. Dopo una continua e a volte convulsa oscillazione tra Mosca e Washington., il presidente Karimov ha posto le basi per una relazione stretta e duratura con gli americani.

 

Il rischio di una reimpostazione complessiva della geopolitica dell’Asia centrale in chiave antirussa ed  antieuropea, pertanto, inizia a farsi evidente proprio nel momento in cui sembravano emergere, sulle rive del Mar Nero, le serie premesse di un’evoluzione improvvisa della prospettiva eurasiatica. Un errore commesso da taluni dopo l’11 settembre è stato quello di ritenere il fondamentalismo islamico sprovvisto di un disegno strategico di ampio respiro. Se al-Qa’ida non è il frutto di alcuna fiction televisiva, ipotesi per la verità piuttosto azzardata, allora risulta impossibile equipararla alle organizzazioni estremistiche occidentali. Le potenzialità finanziarie e le modalità operative dimostrate dalla nuova multinazionale del terrore, a prescindere dalle probabili e finanche ovvie connivenze, testimoniano l’esistenza di un progetto complesso che esclude categoricamente ogni forma di improvvisazione. Di là dai numerosi interessi che hanno generato la crisi mondiale dell’11 settembre, è arduo sostenere che il fondamentalismo islamico abbia agito per puro masochismo.

 

Concepire l’attacco a New York come un’azione fine a sé stessa che, anzi, avrebbe determinato in tempi brevissimi il solo risultato della perdita dell’Afghanistan, appare un paradosso insostenibile. Occorre ricordare che l’escalation del terrorismo islamico contro gli USA ebbe inizio con il primo attentato al Word Trade Center nel 1993 ovvero due anni dopo lo stanziamento militare americano in Arabia Saudita. La “riconquista” di questo paese, all’interno del quale è situata La Mecca, costituisce ovviamente l’obiettivo prioritario del fondamentalismo islamico. Se la stessa Palestina infatti, malgrado la recente crescita di Hamas e della Jihad, assume un’importanza secondaria nell’ambito di un’ipotetica strategia fondamentalista, l’Afghanistan è stata in questi anni, oltreché una redditizia fonte di finanziamento, una mera base logistica e di addestramento dei nuovi miliziani dell’Islam. La rapida caduta di Kabul, dopo l’apocalissi dell’11 settembre, era oggetto di previsioni addirittura scontate. E' probabile, pertanto, che la strategia islamica si snodi sul lungo periodo. La guerra in Afghanistan ha schiuso agli americani la strada del cuore asiatico, ad essi tradizionalmente proibita, garantendo in prospettiva la possibilità di accedere alle enormi risorse petrolifere del Caspio.

 

Un futuro certo non imminente potrebbe rendere l’Arabia Saudita e forse l’area intera del golfo persico non più indispensabili, in modo assoluto, per gli interessi americani. Se si verificasse tale ipotesi, il governo moderato di Riyad troverebbe serie difficoltà di tenuta, considerato il proliferare sempre più fitto del fondamentalismo nel proprio territorio. È altrettanto evidente che se l’interesse americano dovesse progressivamente spostarsi lungo la direttrice centroasiatica, anche il nazionalismo israeliano alla lunga ne trarrebbe diretto giovamento. In realtà l’orientamento conservato in medio oriente dagli USA, dopo l’11 settembre, non conforta assolutamente questa ipotesi. Le relazioni tra Washington e Tel Aviv hanno raggiunto momenti critici. Ma la progressiva evoluzione della partita che si sta giocando a ridosso del Caspio potrebbe riservare, in un futuro non imminente, novità clamorose anche nel golfo persico. A risultare sprovvista di una strategia geopolitica, piuttosto, è proprio l’Europa che ha gestito in modo inadeguato la crisi dell’11 settembre. La gravità oggettiva delle stragi di New York, d'altronde, non avrebbe permesso comunque una gestione differente della crisi: nessuno avrebbe potuto pretendere l’interdizione della strada verso il cuore dell’Asia agli americani colpiti da un attacco terroristico senza precedenti nella storia. Le grandi potenze mondiali, per questo motivo, hanno preferito intraprendere negoziati bilaterali con gli USA facendo di necessità virtù. La Cina, ad esempio, ha fornito il suo assenso all’intervento americano ottenendo probabilmente maggiore "comprensione” per l'azione repressiva verso la minoranza mussulmana nelle regioni dello Xinijang.

 

La Russia, come si è visto, nutre interessi diretti nella regione centroasiatica che verranno gestiti secondo un lavoro sottile di intelligence. Ma è logico supporre che un “alleggerimento” sulla Cecenia rappresenti il costo formale che gli americani si sono impegnati a “sopportare” per l’assenso di Mosca alla guerra contro l’Afghanistan. I grandi d’Europa, consapevoli dell’importanza della partita, hanno preferito escludere dal proprio tavolo i partners più deboli. L’Italia, trovatasi ancora una volta avulsa dal “grande gioco”, ha deciso di partecipare attivamente al conflitto asiatico, segnando una piccola significativa svolta rispetto ai primi cinquanta anni del suo dopoguerra. Il senso di questa scelta ha determinato nelle differenti aree di opposizione radicale atteggiamenti di dissenso ampiamente prevedibili. Ma la questione dell’intervento italiano, come dimostrano i paragrafi precedenti, è stata posta secondo termini errati. Gli USA infatti, forti di un consenso mondiale mai raggiunto negli ultimi cinquanta anni, non avevano alcun interesse alla partecipazione italiana alla guerra afgana. Washington, soddisfatta dell’assenso formale di Roma, non aveva ragione di pretendere un’ulteriore manifestazione di sudditanza da una nazione considerata molto poco utile sotto il profilo militare.

 

Il minor numero di soggetti presenti realmente nel conflitto asiatico avrebbe garantito la massima agilità americana nella partita più importante, quella postúbellica. E significativo che l’accettazione americana della proposta di Berlusconi sia stata formulata sprezzantemente per fax: qualche giornalista dotato di una buona dose di ironia ha proposto il paragone della contrattazione via Internet con un’agenzia di viaggi. In realtà l’intervento militare, consistente essenzialmente nelle attività postbelliche di peacekeeping, serve solo all’Italia. Quando le aree radicali, da tempo oscillanti tra pacifismo ed anti-americanismo verbale, riflettevano sulla linea da assumere la guerra afgana era quasi terminata. Antimoderni per taluni e mercanti della droga per altri, del resto, i taliban non potevano godere delle simpatie riservate ai loro numerosi predecessori dello scorso secolo. Constatata l’impossibilità oggettiva di evitare la presenza americana nel cuore dell’Asia, una partecipazione italiana ed europea al conflitto presentava solo aspetti positivi. La guerra afgana, peraltro, ha assunto tratti di evidente virtualità. Tonnellate di bombe ad alta tecnologia sono state scagliate contro i sassi di Kabul mentre il magazzino della Croce Rossa Internazionale veniva colpito tre volte nell’arco di dieci giorni.

 

L’intervento militare, deciso in extremis, consente ora all’Italia di partecipare, seppure con un ruolo decisamente modesto, al “grande gioco” iniziato a ridosso del Caspio. Una posizione nettamente defilata, al contrario, avrebbe determinato l’unico effetto di una nuova completa esclusione di Roma dalla grande politica mondiale. Il paragone con la guerra di Crimea avrà infastidito i lettori più esigenti, ma ha la sua efficacia. Il silenzio delle aree radicali, dissimulato da sterili manifestazioni di protesta contro la guerra americana, rivela l’assenza in Italia di un’avanguardia culturale e politica. Quest’ultima, denunciando pubblicamente i termini reali del conflitto in atto, avrebbe potuto esprimere una linea interventista capace di invocare non solo una legittima protezione degli interessi asiatici dell’ENI, ma soprattutto, una politica di potenza italiana ed europea nell’Hearthland, nel quadro di quella concezione eurasiatica che dovrebbe caratterizzarla fisiologicamente. Il fatto avrebbe generato in linea di principio un piccolo, significativo elettroshock delle coscienze che, invece, saranno presto consegnate all’immaginario cinematografico americano del soldato italiano suonatore di mandolino. A rendere impossibile in Italia una linea di avanguardia delle aree radicali contribuiscono essenzialmente due fattori: l’incapacità di un approccio politico ed il timore di essere assimilate alle forze moderate. Una lettura politica della crisi mondiale avrebbe consentito di ragionare non su schemi desueti ed astratti, ma in base all’ovvio criterio dell’interesse nazionale ed europeo. Il timore dell’identificazione con soggetti non graditi, del resto, costituisce una manifestazione di forte immaturità ideologica: la politica è l’arte del possibile e la storia non inventa mai nulla di nuovo. L’interventismo di Corridoni non sarà mai quello di Salandra.

 

 

Tratto da orion n° 206

 

vendredi, 05 juin 2009

La Chine à l'offensive contre le dollar

La Chine à l'offensive contre le dollar

Alors que la crise économique bat son plein, contrairement à ce que proclament, sans grande conviction, nos augures gouvernementaux, alors que l’économie américaine s’effondre, les relations financières entre les Etats-Unis et la Chine se cantonnent dans l’opacité. Sur ce sujet, les communiquants sont discrets et les profanes n’y voient pas très clair. A vrai dire, la discrétion a toujours été une des premières vertus de l’empire du Milieu et peut-être bien que les communicants n’ont rien d’autre à dire de plus que nous ne sachions déjà.

Les Chinois, grands amateurs de bons du trésor américains, sont les premiers créanciers des Etats-Unis ; le yuan serait fortement sous-évalué, permettant aux Américains d’y trouver un financement de leur dette publique ; la Chine souhaiterait, appuyée par l’Iran, les pays du BRIC et peut-être bien par la Russie, se désolidariser du dollar pour adopter une nouvelle monnaie de réserve internationale qui le remplacerait, dans un système placé sous les auspices du Fonds monétaire international et dégagé des influences politiques de certains pays ; la Chine augmente ses réserves d'or qui ont quasiment doublées durant les cinq dernières années pour atteindre désormais 1054 tonnes – la Chine, rappelons le, est devenue en 2007 le premier pays producteur du métal précieux, dépassant l'Afrique du Sud, leader historique. Tout cela, le profane le sait, mais la confusion demeure. Polémia soumet à la réflexion de ses cybernautes une étude rédigée par l’économiste Antoine Brunet, directeur d'AB Marchés, qui devrait éclairer leur lanterne.

Polémia


La Chine à l'offensive contre le dollar


Certains croyaient qu'il existait un accord implicite entre les Etats-Unis et la Chine : les premiers acceptaient la sous-évaluation massive du yuan, mais obtenaient en échange de la seconde un financement indéfectible de la dette publique américaine, et la reconnaissance du dollar comme seule vraie monnaie de réserve. On l'a même appelé "l'accord Bretton Woods 2". Or depuis juillet 2008, et jusqu'à la récente visite du président brésilien Lula à Pékin, tout indique que cet accord, s'il a jamais existé, n'existe plus. Dès juillet dernier, on vit ses premières fissures. Les dirigeants chinois interrompent, unilatéralement et sans avertissement préalable, le processus de réévaluation très graduel du yuan contre dollar qu'ils avaient accepté sous la pression du Congrès américain (de 8,28 yuans pour 1 dollar en juillet 2005 à 6,85). Quand le cours équilibrant se situe sans doute à 2 yuans pour 1 dollar, on mesure la provocation que cette interruption soudaine signifiait pour les dirigeants américains.

Au même moment, l'organisme qui gère les réserves de change de l'Etat chinois décide de sortir des obligations Agencies (Freddie Mac et Fannie Mae) pour se concentrer sur les seules obligations du Trésor américain. Ils accentuent ainsi la crise des Agencies, et contraignent monsieur Paulson à les nationaliser le 7 septembre pour un coût de 200 milliards de dollars. Un stress qui conduira les dirigeants américains à lâcher Lehman Brothers huit jours plus tard. La Chine ne jouant plus le jeu, la panique s'était emparée de l'administration américaine.

L'arrivée d'Obama à la présidence des Etats-Unis ne ramènera pas la Chine à plus de coopération. En janvier 2009, sans doute pour décourager la nouvelle administration d'exiger une réévaluation du yuan, la Chine interrompt ses achats d'obligations du Trésor à plus de deux ans ; elle ne les reprendra qu'en mars, et pour un montant limité, après que Tim Geithner, nouveau secrétaire au Trésor, a dissuadé publiquement ses partenaires du G7 de réclamer l'inscription du yuan à l'agenda du G20 suivant ;

En clair, la Chine entend bien continuer à capitaliser sur son commerce extérieur l'avantage que lui donne la sous-évaluation massive du yuan. Pour autant, elle n'entend plus financer le déficit public américain, ni soutenir le dollar comme monnaie de réserve. En mars, le numéro deux chinois, Wen Jiabao, et le gouverneur de la banque centrale, M. Zhou, dénigraient la capacité du dollar à se maintenir comme monnaie de réserve et pointaient la nécessité de son remplacement à terme par une monnaie non nationale : un nouveau DTS.

Au même moment, la Russie annonçait vouloir remplacer le dollar par une monnaie non nationale avec l'aval des autres pays du BRIC (Brésil, Inde et Chine) ainsi que de la Corée du Sud et de l'Afrique du Sud. D'ailleurs, la Chine et le Brésil, qui ont des réserves de change considérables, ont refusé de s'inscrire comme les pays du G7 dans les accords d'emprunt en dollar du FMI, accords qui visent à protéger de la crise mondiale les pays émergents en difficulté (Mexique, Turquie, Pologne, etc.). S'ils ont consenti le 23 mars à financer le FMI, c'est à la condition expresse que, pour la première fois de son histoire, il se finance par émission d'obligations, et ce libellées en DTS et non en dollar.

Dans le même esprit, la Chine révélait, le 27 avril, que ses réserves d'or s'élevaient, non pas à 400 tonnes d'or comme affirmé depuis 2003, mais en réalité à 1.000 tonnes. Tout est bon pour déconsidérer le dollar et convaincre les pays tiers (les pays du Golfe en particulier) de le répudier comme monnaie de réserve et comme monnaie de règlement. Enfin, dernier coup porté au billet vert, le 18 mai, le Brésil et la Chine, à l'occasion d'un voyage du président Lula à Pékin, annoncaient qu'ils n'utiliseraient plus le dollar comme moyen de règlement dans leurs échanges bilatéraux.

Dans ces grandes manœuvres visant à mettre en cause le privilège du dollar tout en conservant pour elle une monnaie sous-évaluée, la Chine joue donc un rôle central. Une évolution hautement géopolitique. Comme l'a rappelé Adam Poser, du Peterson Institute, « le gouvernement américain a toutes les raisons de croire que le dollar doit rester la devise de référence du commerce international. C'est une question géopolitique autant que monétaire. Il offre la meilleure sécurité possible aux Etats-Unis dans l'économie mondiale ».

Les Chinois comme les Russes semblent ne pas avoir oublié que c'est en finançant la guerre des étoiles par le dollar, monnaie de réserve, que les Etats-Unis de Reagan avaient défait l'URSS de Brejnev.

Antoine Brunet,
Economiste, directeur d'AB Marchés.
22/05/09

Correspondance polémia
26/05/09

jeudi, 04 juin 2009

Euro-america o Eurasia?

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Archives - 2003

 

 

Euro-america o Eurasia?

 

 

 

Intervento di Fausto Sorini svolto al seminario internazionale PCdoB di Brasilia del 25-26 Settembre 2003, dedicato all'analisi del quadro mondiale (tratto da http://www.resistenze.org)

 

1) Con l’occupazione militare dell’Iraq si è espressa in modo organico una volontà di dominio globale da parte dei settori più aggressivi dell’imperialismo americano. Controllare il Medio Oriente, maggiore riserva petrolifera mondiale, significa condizionare tutte le dinamiche economiche del pianeta, ed in particolare quelle di Unione europea e Cina, che dal petrolio di questa regione sono ancora oggi largamente dipendenti. Non a caso Russia e Cina, nel primo incontro al vertice tra Putin e Hu Jintao, hanno deciso di intensificare la cooperazione in campo energetico.

 

2) Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove aree economiche, geo-politiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “permanente” e “preventiva” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo, per cercare di invertire una tendenza crescente al declino del loro primato economico.

Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% del PIB del mondo; oggi sono al 25% (come l’Unione europea). Con le attuali tendenze dell’economia mondiale, i centri studi dei Paesi più industrializzati prevedono un ulteriore dimezzamento della % Usa nei prossimi 20 anni. Sarebbe la fine dell’egemonia mondiale dell’imperialismo americano, l’ascesa di nuovi centri di potere, capitalistici e non, un’autentica rivoluzione negli equilibri planetari. Si sono fatte guerre mondiali per molto meno.

 

3) Unione europea, Russia, Cina, India sono le principali potenze economiche e geo-politiche emergenti dotate anche di forza militare. L’Eurasia è il principale ostacolo al dominio Usa sul mondo. Chi avesse ancora dei dubbi, si rilegga Paul Wolfowitz, ideologo dell’amministrazione Bush : “Gli Stati Uniti devono appoggiarsi sulla loro schiacciante superiorità militare e utilizzarla preventivamente e unilateralmente…Il nostro primo obiettivo è di impedire l’emergere ancora una volta (dopo l’Urss - ndr) di un rivale…Ciò richiede ogni sforzo per impedire ad ogni potenza ostile di dominare una regione il cui controllo potrebbe consegnarle una potenza globale. Tali regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale (la Cina - ndr), il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud-occidentale (l’India - ndr)”. 

 

4) Non si tratta di una linea congiunturale, facilmente reversibile con un cambio di presidenza, ma di un orientamento che viene dal profondo dei settori più aggressivi e oggi dominanti dell’imperialismo americano. Un orientamento strategico che guarda alle grandi sfide del 21° secolo, non una breve parentesi. Vi sono differenze nei gruppi dominanti Usa e nell’opinione pubblica, nella stessa amministrazione Bush. Ma le posizioni meno oltranziste oggi sono minoranza e prevedibilmente lo saranno per molto tempo, fino a quando la linea attuale non andrà incontro a sconfitte economiche o militari (tipo Vietnam).

 

5) Gli Usa aspirano, come ha ben sintetizzato Fidel Castro, ad una “dittatura militare planetaria”. E’ una minaccia “diversa”, ma per certi aspetti più grande di quella rappresentata dal nazi-fascismo nel secolo scorso. Gli Usa dispongono oggi di una superiorità militare sul resto del mondo assai maggiore di quella che Germania, Giappone e Italia avevano all’inizio della seconda guerra mondiale. Nemmeno il Terzo Reich pensava al dominio globale del pianeta, così come esso viene teorizzato da alcuni esponenti dell’amministrazione Bush. Ciò spiega perché la linea della “guerra preventiva” suscita una opposizione tanto vasta, che coinvolge la grande maggioranza dei Paesi del mondo. E’ significativo che gli Usa, con la scelta di fare la guerra all’Iraq, siano rimasti in forte minoranza nell’Assemblea generale dell’Onu e nel Consiglio di Sicurezza, dove non solo hanno avuto l’opposizione dei paesi maggiori (Francia, Germania, Russia, Cina), ma dove non sono riusciti – pur esercitando pressioni fortissime – a “comprare” il voto di paesi come Messico, Cile, Angola, Camerun, da cui non si attendevano tante resistenze. Con la guerra in Iraq gli Usa hanno scontato un isolamento politico senza precedenti. Si calcola che solo il 5% dell’opinione mondiale abbia sostenuto la guerra. Una nuova generazione che, con il crollo dell’Urss e la crisi dell’ideale comunista, era cresciuta in tanta parte del mondo col mito del modello americano, oggi comincia ad aprire gli occhi e a maturare una coscienza critica potenzialmente antimperialista, come non si vedeva dai tempi del Vietnam. E’ un grande patrimonio, che peserà nel futuro del mondo.

 

6) La spinta verso un mondo multipolare è inarrestabile, anche se essa procederà con gradualità, perché nessuno oggi ha la volontà e la forza di sfidare apertamente gli Usa. Cresce in ogni continente la tendenza alla formazione di “poli regionali”, volti a rafforzare la cooperazione economica, politica, militare dei paesi dell’area per essere presenti sulla scena mondiale con maggiore potere contrattuale. Tutti ritengono di avere bisogno di tempo per rafforzarsi. Questo può spiegare la prudenza della Cina (e per altri versi della Russia) nei rapporti con gli Usa: vogliono rinviare ad altri tempi una possibile frattura, che in particolare la Cina mette nel conto. Mentre Francia e Germania, con diversa collocazione, non considerano matura la fine del legame transatlantico. Tali disponibilità al compromesso si sono espresse nel voto unanime (con la non partecipazione della Siria) a favore della risoluzione 1483 (22 maggio 2003) del CdS dell’Onu, che in qualche misura legittima a posteriori l’occupazione militare dell’Iraq e “riconosce” i vincitori. La questione si ripropone nella trattativa in corso in questi giorni, in cui si tratta di definire natura, ruolo e comando di un eventuale coinvolgimento dell’Onu in un Iraq tutt’altro che normalizzato, dove gli Usa sono impantanati, costretti a spendere cifre astronomiche, militarmente sotto il tiro di una resistenza irakena che si rivela più tenace e radicata del previsto. Le maggiori potenze che pure si sono opposte alla guerra, nella logica della più classica realpolitik - puntano anche a non farsi escludere da ogni influenza sul nuovo Iraq e dai giganteschi interessi legati alla ricostruzione del paese; e a tutelare i propri interessi in campo, dalle concessioni petrolifere al recupero dei debiti contratti dal vecchio regime di Saddam Hussein. Cercano di costringere gli Usa, oggi in difficoltà, ad accettare quei vincoli Onu ai quali nei mesi scorsi si erano sottratti. Il rischio è quello di contribuire a sostenere e legittimare l’occupazione militare e il comando degli Usa in Iraq, offrendo loro un salvagente senza significative correzioni della loro politica aggressiva. Vedremo su quali basi avverrà il compromesso.

 

7) Questa guerra ha fatto nascere un forte movimento popolare, che ha coinvolto centinaia di milioni di persone, in ogni continente. Il 15 febbraio 2003 più di cento milioni di persone hanno manifestato contemporaneamente in ogni parte del mondo. Era dalla fine degli anni ’40, dai tempi del Movimento dei partigiani della pace, che non si vedeva una mobilitazione così estesa a tutte le latitudini. Si tratta di una delle novità più importanti del quadro internazionale dopo il 1989. Anche se tale movimento non ha avuto la forza per fermare la guerra e oggi vive una fase di delusione e di riflusso, si sono poste importanti premesse per le lotte future e per la ricostruzione di un movimento mondiale contro la logica imperialista della guerra, che non si fermerà. Vi è qui un terreno fondamentale di lavoro per i comunisti e le forze rivoluzionarie di ogni parte del mondo. Purtroppo mancano forme anche minime di coordinamento internazionale di tale lavoro; e questo limite, che dura ormai da molti anni, non vede ancora in campo ipotesi di soluzione ed iniziative adeguate da parte dei maggiori partiti comunisti che avrebbero la forza e la credibilità per prenderle. Ciò rende tutto più difficile, ed espone il movimento contro la guerra, soprattutto in alcune regioni del mondo, all’influenza prevalente delle socialdemocrazie, delle Chiese o di alcuni raggruppamenti trotzkisti (come è stato finora, in buona misura, nel movimento di Porto Alegre). L’appuntamento del prossimo Forum Sociale Mondiale in India, potrebbe vedere in proposito alcune novità, ed un suo ampliamento unitario: in senso geo-politico, con il coinvolgimento dell’Asia, oltre l’asse originario imperniato su Europa occidentale, Stati Uniti e America Latina (poi si dovrà guardare all’Africa, all’Europa dell’Est, alla Russia); e in senso politico, con l’auspicabile superamento di una persistente pregiudiziale antipartitica, che si è finora risolta in sorda ostilità soprattutto nei confronti dei partiti comunisti. Se sarà così, il movimento non potrà che trarne vantaggio, consolidamento e maggiori legami coi movimenti operai dei rispettivi paesi, con generale beneficio del movimento mondiale contro la guerra e la crescita in esso di una più matura coscienza antimperialista.

 

8) L’opposizione alla “guerra preventiva” viene non solo dalle tradizionali forze di pace, ma anche da parte di potenze imperialiste come Francia e Germania, che fanno parte del nuovo ordine mondiale dominante. Potenze non “pacifiste”, come si è visto in Africa (ad es. in Congo, dove la competizione interimperialistica tra Francia e Stati Uniti, per il controllo delle immense risorse minerarie della regione è costata la vita in pochi anni a 4 milioni di persone…); o nella guerra della Nato contro la Jugoslavia, che ha visto Francia e Germania pienamente coinvolte. Questi paesi sono gli assi portanti dell’Unione europea, un progetto autonomo di costruzione di un polo imperialista (con la sua moneta : l’ euro) che vuole giocare le sue carte nella competizione globale. E che in prospettiva punta a dotarsi di una forza militare autonoma dagli Usa. Questi paesi non accettano di sottomettersi al dominio Usa, ma procedono con prudenza in questo processo di autonomizzazione : non hanno oggi la forza di sfidare apertamente gli Usa, non hanno un sufficiente consenso degli altri Paesi dell’Unione europea per mettere apertamente in discussione l’equilibrio “transatlantico”.

 

9) Le contraddizioni che oppongono la grande maggioranza dei Paesi del mondo al progetto militarista e unipolare Usa, sono di natura diversa: -vi sono contrasti tra imperialismo e Paesi in via di sviluppo, che aspirano alla pace e a un ordine mondiale più giusto nella ripartizione delle ricchezze del pianeta; - vi sono contrasti tra imperialismi, per la ripartizione delle risorse mondiali e delle rispettive sfere di influenza; - vi sono contrasti tra imperialismo e paesi di orientamento progressista (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Brasile, Libia, Siria, Palestina, Sudafrica, Bielorussia, Moldavia…) che in vario modo aspirano ad un modello di società diverso dal capitalismo dominante. Si evidenzia qui in particolare il contrasto con la Cina, grande potenza socialista (economica e nucleare), diretta dal più grande partito comunista al mondo, che sta emergendo come la grande antagonista degli Usa nel 21° secolo. Questo dichiarano apertamente vari esponenti Usa, che valutano che nei prossimi 20 anni, con gli attuali tassi di sviluppo, il PIB della Cina potrebbe eguagliare quello degli Usa, il divario di potenza militare potrebbe ridursi, e quindi “bisogna pensarci prima che sia tardi”, se non si vuole che la Cina divenga per gli Stati Uniti, nel 21° secolo, quello che l’Urss è stata nel secolo scorso; - vi sono contrasti con grandi paesi come la Russia e l’India (potenze nucleari), che pur non avendo oggi una coerente collocazione progressista in campo internazionale, non fanno parte del sistema imperialistico dominante, e hanno interessi nazionali e una collocazione geo-politica che contraddicono le aspirazioni egemoniche degli Usa. La Casa Bianca, nel suo documento sulla Sicurezza nazionale del settembre 2002, li definisce paesi dalla “transizione incerta”, che potrebbero evolvere verso una crescente omologazione agli interessi Usa e al suo modello sociale e politico (distruzione di ogni statalismo in campo economico, democrazia liberale in campo politico-istituzionale, rinuncia al potenziamento del proprio potenziale militare e nucleare e ad ogni “non allineamento” in politica estera…); ma che potrebbero evolvere in senso opposto e quindi rappresentare una “minaccia” per l’egemonia Usa e per l’attuale ordine mondiale dominante.

 

10) Vi è una spinta, nei vari continenti, alla formazione di entità regionali più autonome dagli Usa e con un proprio protagonismo sulla scena mondiale: -in Europa, con l’Ue e il rapporto Ue-Russia; -nell’area ex-sovietica, con la Csi; -in America Latina, con il Mercosur e la convergenza progressista di Brasile, Cuba, Venezuela…; -in Africa, con l’Unione africana e il Coordinamento per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi dell’Africa australe (SADC), imperniato sul nuovo Sudafrica e sui governi progressisti della regione (Angola, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Congo, Tanzania…); -in Asia, con lo sviluppo del rapporto Cina-Asean/Cina-Vietnam. Nel 2010 i dieci paesi dell’Asean e la Cina formeranno il più grande mercato comune del pianeta; con le spinte verso una riunificazione della Corea su basi di neutralità, denuclearizzazione e allontanamento di tutte le basi militari straniere; con il rafforzamento del ruolo del “Gruppo di Shangai” (Russia, Cina, Kazachistan, Kirghisia, Uzbekistan, Tagikistan) : imperniato sull’asse russo-cinese, con la recente significativa richiesta di Putin all’India di entrare a farne parte. Il processo di avvicinamento tra Cina e India pesa enormemente sugli equilibri mondiali.

 

11) Gli Usa osteggiano il formarsi di questi “poli regionali” e cercano di favorirne la “disaggregazione”, oppure di sostenere all’interno di essi l’egemonia delle forze che sono sotto la loro influenza. Ne derivano contrasti di natura diversa nei principali organismi internazionali (Onu, FMI, G7, Wto, Unione Europea, nella stessa Nato). Ultimo in ordine di tempo il fallimento del vertice WTO a Cancun, dove è emerso uno schieramento “Sud-Sud”, imperniato su Cina, India, Brasile, Sudafrica (e con la significativa presenza di paesi come Cuba e Venezuela) che si è fatto interprete degli interessi dei Paesi in via di sviluppo, contro le pretese egemoniche dei maggiori centri dell’imperialismo. Le contraddizioni tendono continuamente a ripresentarsi : basti pensare alle tensioni e alle minacce che investono Iran, Siria, Arabia Saudita, crisi palestinese, Corea del Nord, Venezuela, Cuba; ad una situazione interna all’Iraq non normalizzata; alla permanente competizione economica e valutaria Usa-Ue / dollaro-euro... Ma c’è diversità di interessi in campo, di progetti politici e di modello sociale, anche tra le forze che si oppongono all’unilateralismo Usa. Ad esempio : la Cina, il Vietnam, Cuba, il Venezuela…non hanno la stessa collocazione strategica, della Germania di Schroeder o della Francia di Chirac, che invece difendono un certo modello economico e un ordine mondiale fondato sul predominio delle grandi potenze capitalistiche. Emblematica la vicenda di Cuba che è sostenuta dai Paesi socialisti e progressisti, ma osteggiata dall’Unione europea che si è vergognosamente avvicinata agli Usa nel rilancio di una campagna ostile. La lotta di classe non è scomparsa, così come non scomparve negli anni ’40 quando forze tra loro assai diverse per riferimenti sociali e politici trovarono una comune convergenza contro il nazi-fascismo, per poi tornare a dividersi negli anni della guerra fredda, perché portatori di interessi e di modelli di società tra loro alternativi.

 

12) Il fatto che l’opposizione alla guerra di grandi paesi come Russia, Cina, Francia, Germania non abbia superato una certa soglia di asprezza (oltre la quale il contrasto tende a spostarsi sul terreno dello scontro aperto, anche militare); il fatto che momenti di forti divergenze si alternino a situazioni in cui prevale la ricerca di una mediazione e di un compromesso, sorge non già – come sostengono le teorie di Toni Negri sul nuovo impero - dall’esistenza di interesse omogenei di un presunto “capitale globale” e di un presunto “direttorio mondiale” in cui esso troverebbe espressione politica organica e unitaria, ma da rapporti di forza internazionali che, sul piano militare, non consentono oggi a nessun paese o gruppo di paesi di portare una sfida aperta, oltre certi limiti, alla superpotenza Usa.

 

13) Come ricostruire internazionalmente un contrappeso capace di condizionare la politica estera degli Stati Uniti? Questo è il problema n°1 per tutte le forze che non vogliono una nuova tirannia globale. E’ necessaria la convergenza di più forze, tra loro assai diverse: -innanzitutto la resistenza del popolo irakeno e delle forze che in Medio Oriente la sostengono (Siria, Iran, resistenza palestinese…) per mantenere aperto il “fronte interno”, contro l’occupazione militare, e scoraggiare nuove avventure. E’ necessario un sostegno internazionale a questa resistenza, oggi pressochè inesistente al di fuori del mondo arabo; sostegno non separabile da quello alla causa palestinese, in grave difficoltà dentro una dinamica politico-diplomatica sempre più condizionata dagli Usa, che con Israele vogliono il controllo pieno del Medio Oriente; -la ripresa del movimento per la pace negli Usa e su scala mondiale, riorganizzando le sue componenti più dinamiche e determinate, per impedirne la dispersione e il riflusso; -il consolidamento delle più larghe convergenze politico-diplomatiche tra Stati, contro l’unilateralismo Usa, senza di che è impensabile una ripresa di ruolo dell’Onu (obiettivo che non va abbandonato, in assenza di alternative più avanzate che oggi non esistono). Si impone un maggior ruolo dell’Assemblea generale rispetto al Consiglio di Sicurezza e una composizione più rappresentativa del Consiglio stesso; -lo sviluppo, negli Stati Uniti, di una opposizione alla politica di Bush e in Gran Bretagna a quella di Blair, oggi entrambi in crisi di consenso. La difesa intransigente del diritto di Cuba, della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord e di ogni altro paese minacciato a proteggere la propria sovranità da ogni ingerenza esterna, è parte integrante della lotta contro il sistema di guerra, indipendentemente dal giudizio che ognuno può avere sulla situazione interna di questo o quel paese.

 

14) Come evolverà l’Europa? Sono emerse divisioni non facilmente superabili tra Usa e Unione europea, all’interno dell’Unione europea e della Nato (cioè tra alleati del tradizionale blocco atlantico), come mai era accaduto nel dopoguerra. Nell’Unione europea (e nella Nato) continuerà il contrasto tra filo-americani e sostenitori di un’Europa più autonoma dagli Usa, imperniata sul rapporto preferenziale tra Francia - Germania - Russia. Anche per questo gli Usa vorrebbero l’ingresso nell’Ue di Turchia e Israele, loro alleati di fiducia (soprattutto Israele, perché anche in Turchia, come si è visto in relazione al conflitto irakeno, sta emergendo una dialettica nuova). Una sconfitta elettorale (possibile) dei governi di centro-destra in Italia e in Spagna, favorirebbe una collocazione europea più autonoma.

 

15) E’ vero che gli Usa sono oggi orientati ad agire anche militarmente in modo unilaterale, senza farsi condizionare né dall’Onu nè dalla Nato, ma essi non rinunceranno alla Nato, che continua ad essere per loro uno strumento prezioso per controllare l’Europa e le strutture politico-militari, di sicurezza, di intelligence, nonché l’industria e la tecnologia militare dei Paesi europei integrati nell’Alleanza. E per disporre di basi militari sul continente, poste sotto il loro controllo, magari spostandole o creandone di nuove nei paesi europei più fedeli e sottomessi, come alcuni paesi dell’Est. Gli Usa dispongono di una presenza militare in 140 Stati su 189 (con altri 36 vi sono accordi di cooperazione militare), con 800 basi militari e 200.000 soldati dislocati all’estero in permanenza (esclusi quelli presenti in Iraq). Ciò rende attualissima e non rituale la ripresa di una iniziativa del movimento per la pace per la chiusura delle basi militari Usa nei rispettivi Paesi. Per il ritiro di tutti i militari impegnati all’estero a supporto di azioni di guerra e di occupazione militare. Per attivare iniziative e dinamiche di disarmo in campo internazionale.

 

16) Un intellettuale britannico vicino a Tony Blair, ha scritto dopo la guerra in Iraq che in Europa il bivio è “tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi – Berlino – Mosca – Delhi – Pechino) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa”. Tony Blair ha espresso con chiarezza la sua linea euroatlantica in una intervista al Financial Times (28.05.2003), affermando: “Alcuni auspicano un mondo multipolare con diversi centri di potere che si trasformerebbero presto in poteri rivali. Altri pensano, e io sono tra questi, che abbiamo bisogno di una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e America”. Dunque: “Euro-america” o “Eurasia”?

 

17) Chi vuole un’ Europa davvero autonoma dagli Usa e dal suo modello di società, deve avere un progetto alternativo, che vada oltre l’attuale Unione europea e le basi su cui essa è venuta formandosi e che comprenda tutti i paesi del continente (anche Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia…). Un progetto che: -sul piano economico, contrasti la linea delle privatizzazioni e prospetti la formazione di poli pubblici sovranazionali (interessante la proposta, in altro contesto, che il presidente venezuelano Hugo Chavez ha sottoposto a Lula, per la formazione di un polo pubblico continentale per la gestione delle risorse energetiche, collegato ad una banca pubblica regionale che serva a finanziare progetti di sviluppo e con finalità sociali); -sul piano politico-istituzionale, contrasti ipotesi federaliste volte a svuotare la sovranità dei Parlamenti nazionali e sostenga un’ipotesi di Europa fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non subalterna ai poteri forti delle maggiori potenze imperialistiche che dominano l’attuale Unione europea; -sul piano militare, preveda un sistema di sicurezza e di difesa pan-europeo, alternativo alla Nato, comprensivo della Russia (una sorta di Onu europea), che già oggi – considerando il potenziale nucleare di Francia e Russia – disporrebbe di una forza difensiva sufficiente a dissuadere chiunque da un’aggressione militare all’Europa. Dunque, un progetto opposto a quello di un riarmo dell’Unione europea, di una sua militarizzazione e vocazione imperialistica, volte a rincorrere gli Usa sul loro terreno. E’ vero che oggi l’imperialismo franco-tedesco è assai meno pericoloso per la pace mondiale di quello americano e può fungere a volte da contrappeso. Ma guai a trarne una linea di incoraggiamento al riarmo dell’Ue: i movimenti operai e i popoli europei, e qualsivoglia progetto di Europa sociale e democratica, verrebbe colpiti al cuore da una politica di militarizzazione del continente su basi neo-imperialistiche. Essa stimolerebbe la corsa al riarmo a livello internazionale, e il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite duramente le spese sociali, distruggerebbe quel poco che rimane dell’Europa del Welfare.

 

18) L’Unione europea non può fare da sola. Se vuole reggere il confronto con gli Usa ed uscire dalla subalternità atlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con la Russia (che è parte dell’Europa), con la Cina, l’India; e con le forze più avanzate e non allineate che si muovono in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Solo una rete di unioni regionali, non subalterne agli Usa (di cui l’Europa sia parte) può modificare i rapporti di forza globali e condizionare la politica Usa. Gli Usa non possono fare la guerra a tutto il mondo.

 

19) In paesi come Russia, Cina, India – potenze nucleari in cui vive la metà della popolazione del pianeta, che potrebbero esprimere tra 20 anni un terzo della ricchezza mondiale (e che la stessa amministrazione Bush definisce “paesi dalla transizione incerta”) – le forze comuniste, di sinistra, antimperialiste, non subalterne al modello neo-liberista e agli Usa, costituiscono già oggi una forza maggioritaria (in Cina) o che potrebbe diventarlo (Russia, India) nell’arco di un decennio.

Un’alleanza elettorale in India tra Congresso e Fronte delle sinistre (animato dai comunisti) potrebbe vincere le prossime elezioni (previste per il 2005), su un programma che recuperi le istanze progressive del non-allineamento. Un’avanzata dei comunisti e dei loro alleati alle prossime elezioni politiche in Russia può creare le condizioni per un compromesso con Putin (con una parte almeno delle forze che sostengono Putin) e collocare la Russia su posizioni più avanzate. Sono possibilità, non certezze. Per questo parlo di un processo che potrebbe maturare “nell'arco di un decennio”. Ma che dispone delle potenzialità per affermarsi e su cui forze importanti in questi Paesi stanno lavorando.

 

20) Come ha sintetizzato Samir Amin, “un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico”. Un’ Eurasianon allineata può rappresentare un interlocutore fondamentale anche per le forze progressiste in America Latina e in Africa. Non sarebbe il socialismo mondiale, ma certamente un avanzamento strategico nella direzione giusta. E con il clima politico che caratterizza il mondo di oggi, non sarebbe poco.

 

 

 

jeudi, 28 mai 2009

Obama et le guêpier pakistanais

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Obama et le guêpier pakistanais,
par Eric Margolis - Ex: http://contreinfo.info/

En quelques phrases sèches, Eric Margolis résume la situation, décrit les forces en présence et clarifie les enjeux. Embourbés dans une guerre ingagnable en Afghanistan, les USA qui bombardent déjà régulièrement le Pakistan ont poussé Islamabad à attaquer les pachtounes des zones tribales, au risque de faire voler en éclat la stabilité du pays et d’embraser la région tout entière. « Le véritable danger provient des États-Unis qui agissent comme un mastodonte enragé, foulant aux pieds le Pakistan, et contraignant l’armée d’Islamabad à faire la guerre à son propre peuple, » avertit Margolis qui connaît bien la région et les pachtounes pour les avoir côtoyés de près lors de la guerre contre les soviétiques.

Par Eric Margolis, Winnipeg Sun, 17 mai 2009

Le Pakistan a finalement cédé la semaine dernière aux demandes irritées de Washington, et a envoyé ses troupes contre la rébellion des tribus pachtounes des Provinces de la Frontière du Nord-Ouest - que l’occident dénomme à tort les « talibans ».

L’administration Obama avait menacé de mettre fin aux versements annuels de 2 milliards de dollars que reçoivent les dirigeants politiques et militaires du Pakistan en faillite et de bloquer 6,5 milliards d’aides futures, à moins qu’Islamabad n’envoie ses soldats dans les turbulentes zones tribales du Pakistan qui sont situées le long de la frontière afghane.

Cela s’est conclut par un bain de sang : quelques 1 000 « terroristes » tués (comprendre : la plupart sont des civils) et 1,2 millions de personnes - la plus grande partie de la population de la vallée de Swat - sont devenues des réfugiés.

Les forces armées pakistanaises instrumentalisées par les États-Unis ont remporté une brillante victoire contre leur propre peuple. Cela n’avait malheureusement pas été le cas lors des guerres contre l’Inde. Bombarder des civils est cependant beaucoup moins dangereux et plus rentable.

Washington, profondément déçu d’être incapable de pacifier les tribus pachtounes de l’Afghanistan (alias les talibans), a commencé à s’en prendre au Pakistan, tentant de venir à bout de la résistance pachtoune dans les deux pays. Les drones de la CIA ont déjà tué plus de 700 pachtounes pakistanais. Selon les médias, seuls 6% étaient des militants, et le reste des civils.

Les pachtounes, également improprement appelés pathans, forment la plus nombreuse des populations tribales. Quinze millions d’entre-eux vivent en Afghanistan, constituant la moitié de sa population. Vingt-six millions vivent au delà de la frontière du Pakistan. La Grande-Bretagne impérialiste a divisé les pachtounes par une frontière artificielle, la ligne Durand (qui forme aujourd’hui la frontière entre l’Afghanistan et le Pakistan). Les pachtounes rejettent cette frontière.

De nombreuses tribus pachtounes ont accepté de rejoindre le Pakistan en 1947, à condition que leur patrie soit autonome et libre de troupes gouvernementales. Les pashtounes de la vallée Swat n’ont rejoint le Pakistan qu’en 1969.

Lorsque les pachtounes du Pakistan ont accru leur aide à la résistance des pachtounes d’Afghanistan, les USA ont débuté leurs attaques de drones. Washington a contraint Islamabad à violer sa propre constitution en envoyant des troupes dans les terres pachtounes. Avec pour résultat l’actuelle explosion de colère des pachtounes.

J’ai vu les pachtounes faire la guerre et je peux témoigner de leur légendaire courage, de leur sens aigu de l’honneur et de leur détermination. Ils sont aussi extrêmement querelleurs, batailleurs et irritables.

On apprend vite à ne jamais menacer un Pachtoune ou à lui poser des ultimatums. Ce sont les guerriers montagnards qui ont défié les États-Unis en refusant de livrer Osama bin Laden, car il était un héros de la guerre anti-soviétique et était leur invité. L’ancien code de « Pachtunwali » guide toujours leurs actions : ne pas attaquer les pachtounes, ne pas tricher avec eux, ne pas causer leur déshonneur. Pour les pachtounes, la vengeance est sacrée.

Aujourd’hui, les politiques de Washington et les récentes atrocités de la vallée de Swat menacent de déclencher le pire cauchemar du Pakistan, au second rang après une invasion indienne : que ses 26 millions de Pachtounes fassent sécession et rejoignent les pachtounes d’Afghanistan pour former un état indépendant, le Pachtounistan.

Cela ferait éclater le Pakistan, inciterait probablement les farouches tribus balouches à tenter de faire sécession et pourrait tenter la puissante Inde d’intervenir militairement, au risque d’une guerre nucléaire avec le Pakistan assiégé.

Les pachtounes des zones tribales n’ont ni l’intention ni la capacité de se répandre dans d’autres provinces du Pakistan, le Punjab, le Sindh et le Baluchistan. Ils veulent seulement qu’on les laisse tranquilles. Les craintes d’une prise du pouvoir des talibans au Pakistan ne sont que pure propagande.

Les pakistanais ont rejeté à maintes reprises les partis islamiques militants. Nombreux sont ceux qui ont peu d’amour pour les Pachtounes, qu’ils considèrent comme de rustiques montagnards qu’il vaut mieux éviter.

L’arsenal nucléaire du Pakistan, bien gardé, ne représente pas non plus un danger - du moins pas encore. Les craintes au sujet des armes nucléaires pakistanaises proviennent des mêmes fabricants de preuves - ayant un agenda secret - que ceux qui nous ont sorti les fausses armes de Saddam Hussein.

Le véritable danger provient des États-Unis qui agissent comme un mastodonte enragé, foulant aux pieds le Pakistan, et contraignant l’armée d’Islamabad à faire la guerre à son propre peuple. Le Pakistan pourrait finir comme l’Irak occupé, divisé en trois parties et impuissant.

Si cela continue, les soldats pakistanais patriotes pourraient à un moment se rebeller et abattre les généraux corrompus et les politiciens qui émargent à Washington.

Tout aussi inquiétant, un soulèvement de pauvres se répandant à travers le Pakistan - lui aussi dénommé à tort « taliban » - porte la menace d’une rébellion radicale rappelant celle des rebelles naxalites de l’Inde.

Comme en Irak, ce sont une profonde ignorance et l’arrogance militariste qui conduisent la politique des États-Unis en Afghanistan. Les gens d’Obama ne comprennent pas ce vers quoi ils se dirigent en « Af-Pak ». Je peux le leur dire : un triste désastre que nous regretterons longtemps.


Publication originale Winnipeg Sun, traduction Contre Info

dimanche, 24 mai 2009

Politica hostil de EE.UU hacia Corea es antipacifica y anti-reunificacion

Politica hostil de EE.UU. hacia Corea es antipacifica y anti-reunificacion

Tambien despues de aparecer la nueva administracion Obama, Estados Unidos recurre a las maniobras de empeorar aun mas las relaciones entre el Norte y el Sur de Corea y obstaculizar el avance de la causa de la reunificacion intensificando la cooperacion con las autoridades conservadoras del Sur de Corea en la confrontacion con la Republica Popular Democratica de Corea de Corea. Esto demuestra que la politica hostil de EE.UU. a esta no ha cambiado ni en lo minimo.

Insiste asi el diario Rodong Sinmun en un articulo individual difundido este jueves y continua:

Tal politica hostil se caracteriza por la de agresion y de guerra para aplastar con las fuerzas a la RPDC y por la de criminal confrontacion y de division que impide la reconciliacion y la unidad de la nacion y la reunificacion de la patria.

Tambien debido a tal politica, los coreanos sufrieron la catastrofe de la guerra en la decada de 1950 del siglo pasado, y experimentaron la pena de division estando siempre en el peligro de guerra sin lograr la paz duradera en mas de medio siglo.


EE.UU. practica hoy tambien la politica para agredir en lo militar al Norte de Corea hostilizandolo de continuo.

EE.UU. es el fautor principal que dividio la nacion coreana en dos y el perverso estorbador de la reunificacion de la patria.

EE.UU. intenta realizar a toda costa la ambicion dominacionista y agresiva exacerbando la confrontacion N-S tras ocupar indefinidamente el Sur de Corea. Tal intencion del imperio ha venido azuzando la perduracion de la division de la nacion coreana y el empeoramiento de las relaciones N-S.

La realidad demuestra evidentemente que mientras sigue siendo la invariable politica hostil de EE.UU. a Corea, no es posible alcanzar la paz y la reunificacion del pais que es la aspiracion de la epoca y el angustioso anhelo de la nacion.

Todos los coreanos del Norte, el Sur y en ultramar deben avivar mas las llamas de la lucha pannacional por frustrar dicha politica de EE.UU. y sus maniobras de provocacion de guerra de agresion a esta y de confrontacion con la RPDC, tienen que observar la paz de la Peninsula Coreana y lograr cuanto antes la causa historica de la reunificacion independiente de la nacion.

Extraído de Korean News.

samedi, 23 mai 2009

Obama aggrave la situation au Pakistan et en Afghanistan

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Obama aggrave la situation au Pakistan et en Afghanistan

Ex: http://contreinfo.info/

Nous nous disons mener une guerre contre les talibans. En réalité, il s’agit d’une guerre contre les Pachtounes, qui sont 40 millions, à cheval sur la frontière entre Pakistan et Afghanistan, et qui veulent retrouver à Kaboul la voix au chapitre perdue en 2001. Par une ironie de l’histoire, la stratégie du diviser pour régner de l’empire britannique, qui a présidé au tracé de la Ligne Durand, rend vaine toute logique militaire d’affrontement avec les Pachtounes en Afghanistan. C’est l’échec - prévisible - de la confrontation avec les tribus en Afghanistan qui met aujourd’hui le hinterland pachtoune du Pakistan à feu et à sang. L’occupation étrangère a pour résultat d’unifier toutes les tribus, toutes les familles, contre les envahisseurs, menaçant du même coup la cohésion du Pakistan, et renforçant les tendances les plus extrémistes. Quelle est la solution ? A l’inverse de ce que planifie Obama, c’est le départ des forces étrangères, dont la présence enflamme la région, qui est le préalable à toute amélioration de la situation. Le temps est-il venu - enfin - de comprendre que ce ne seront pas les opérations militaires de contre-insurrection et les bombardements meurtriers sur la population civile qui parviendront à promouvoir les droits de la femme à Kaboul ? Analyse de Graham E. Fuller, ancien responsable de la station Afghane de la CIA.

par Graham E. Fuller, Saudi Gazette, 10 mai 2009

Malgré tous les discours sur le « smart power », le président Obama suit au Pakistan le même chemin menant à l’échec, qui avait été balisé par George Bush. La réalité impose une révision drastique de la pensée stratégique américaine.

• La force militaire ne permettra pas de prévaloir, que ce soit en Afghanistan ou au Pakistan ; les crises ont empiré avec la présence de l’armée américaine.

• Les talibans sont constitués en grande partie de montagnards islamistes fervents et ignorants. Ce sont également tous des Pachtounes. La plupart des Pachtounes voient les talibans - que cela plaise ou non - comme le principal outil permettant la restauration du pouvoir pachtoune en Afghanistan, perdu en 2001. Les Pachtounes sont aussi l’un des peuples au monde les plus farouchement nationalistes, xénophobes et tribaux, qui ne s’unissent que contre les envahisseurs étrangers. En fin de compte, les talibans sont sans doute plus Pachtounes qu’ils ne sont islamistes.

• Croire possible de sceller de façon étanche la frontière pakistano-afghane relève du fantasme. La « ligne Durand » est une ligne arbitraire tracée par l’empire britannique au coeur des tribus pachtounes des deux côtés de la frontière. Et il y a deux fois plus de Pachtounes au Pakistan qu’il n’y en a en Afghanistan. Le combat des 13 millions de Pachtounes afghans a déjà enflammé les 28 millions de Pachtounes du Pakistan.

• L’Inde est la principale menace géopolitique pour le Pakistan, et non l’Afghanistan. Le Pakistan doit donc toujours faire de l’Afghanistan un État ami. De plus, l’Inde est décidée à prendre pied résolument en Afghanistan - dans les domaines du renseignement, de l’économie et du politique - ce qui donne des frissons à Islamabad.

• Le Pakistan ne rompra donc jamais les liens avec les Pachtounes, ni ne les abandonnera dans les deux pays, qu’il s’agisse de radicaux islamistes ou non. Le Pakistan ne pourra jamais se permettre de voir des Pachtounes hostiles à Islamabad ayant le contrôle à Kaboul, ou sur son territoire.

• Partout, l’occupation crée la haine, comme les États-Unis sont en train de l’apprendre. Pourtant, les Pachtounes sont notablement absent du mouvement jihadiste au niveau international, bien qu’ils soient nombreux à s’être rapidement alliés sur leur territoire avec Al-Qaida pour combattre l’armée américaine.

• Les États-Unis avaient toutes les raisons de frapper en représailles à la présence d’Al-Qaida en Afghanistan, après l’attentat du 11 septembre. Les talibans représentaient un cas d’école de régime brutal et incompétent. Mais les talibans ont abandonné le terrain, plutôt qu’ils n’ont perdu la guerre de 2001, afin reprendre le combat plus tard. De fait, on peut débattre pour savoir s’il aurait été possible - avec une pression exercée par le Pakistan, l’Iran, l’Arabie saoudite et la quasi-totalité des autres pays musulmans qui considèrent les talibans comme des rustres - de contraindre les talibans d’extrader Al-Qaïda sans recourir à la guerre . Ce débat est en tout cas, maintenant sans objet. Mais les conséquences de cette guerre débilitante sont funestes et elles continuent encore à se propager.

• La situation au Pakistan est passée de mauvaise à pire encore, en conséquence directe de la guerre menée par les États-Unis et qui fait rage sur la frontière afghane. La politique américaine a désormais porté la guerre d’Afghanistan au delà de la frontière avec le Pakistan, par des incursions, des assassinats et des bombardements de drones - c’est une réponse classique lors de l’échec face à une insurrection. Vous souvenez-vous de l’invasion du Cambodge, afin de sauver le Vietnam ?

• Le caractère islamique et tribal profondément enraciné du pouvoir pachtoune dans les Province de la Frontière du Nord-Ouest du Pakistan ne sera pas transformé par l’invasion ou la guerre. C’est une tâche qui requiert probablement plusieurs générations pour que commence à se transformer le caractère social et psychologique qui sont profondément ancrés dans cette région. La guerre provoque une réponse viscérale et atavique.

• Le Pakistan est de fait en train de commencer à se fissurer sous la pression incessante exercée directement par les États-Unis. Les sentiments anti-américains au Pakistan sont très virulents, renforçant le radicalisme islamique et contraignant même les non-islamistes à y adhérer.

Seul le retrait de l’Amérique et de l’OTAN sur le terrain commencera à permettre à ces émotions proche de la frénésie de s’estomper au Pakistan, et à la région de commencer à se refroidir. Le Pakistan est expérimenté en matière de gouvernance et il est très capable de faire face à ses propres islamistes et mouvements tribaux dans des circonstances normales. Jusqu’à récemment, les islamistes pakistanais avaient l’un des plus faibles taux de succès électoral dans le monde musulman.

Mais les politiques américaines ont porté le nationalisme, la xénophobie et l’islamisme à leur paroxysme. Maintenant que Washington exige que le Pakistan se charge de réparer l’échec des politiques américaines en Afghanistan, Islamabad ne parvient plus à gérer sa crise interne.

L’armée pakistanaise est plus que capable de maintenir le pouvoir de l’État contre les milices tribales et de défendre ses propres armes nucléaires. Seule une convulsion nationaliste et révolutionnaire pourrait modifier cette situation - ce dont la plupart des Pakistanais ne veulent pas. Mais Washington peut encore réussir à déstabiliser le Pakistan en poursuivant sa stratégie de ligne dure. Un nouvel épisode de régime militaire - qui n’est pas ce dont le Pakistan a besoin - sera le résultat probable, et même dans ce cas, les politiques fondamentales d’Islamabad ne changeront pas, sauf au niveau cosmétique.

En fin de compte, seuls les islamistes modérés eux-mêmes peuvent l’emporter sur les radicaux dont la principale source de légitimité provient de l’incitation à la résistance populaire contre les envahisseurs extérieurs. Malheureusement, les forces américaines et les islamistes radicaux sont maintenant proches d’un état de co-dépendance.

Il serait encourageant de voir naître une démocratie en Afghanistan. Ou d’assister à une généralisation des droits des femmes et de l’éducation - des domaines où paradoxalement l’occupation soviétique avait plutôt bien réussi. Mais ces changements ne vont pas se produire, même dans une génération, compte tenu de l’histoire de dévastation sociale et économique de ce pays depuis plus de 30 ans.

La menace d’Al-Qaida ne provient plus des grottes de la frontière, mais de ce qu’elle symbolise, et a depuis longtemps diffusé ses métastases à d’autres activistes du monde musulman. Les Pachtounes se battent pour obtenir une plus grande participation au pouvoir en Afghanistan. Mais peu de Pachtounes des deux côtés de la frontière se placeront longtemps dans une perspective radicale de jihadisme international, une fois disparue l’incitation qui naît de la présence américaine. Personne de part et d’autre de la frontière, ne le souhaite réellement.

Ce qui peut être fait doit être en harmonie avec la culture politique. Il faut laisser les non-militaires et les organisations internationales neutres, libre de préoccupations géopolitiques, prendre en charge la guérison des plaies afghanes et la construction des structures de l’État. Si les huit dernières années avaient apporté des succès, peut-être une pourrait-on adhérer aux politiques menées par les États-Unis. Mais la situation sur le terrain ne montre qu’une détérioration continuelle, rendant l’issue de plus en sombre. Allons-nous renforcer encore cette même politique ? Ou les États-Unis vont-ils reconnaître que la présence américaine est devenue plus un problème que la solution ? Ce débat n’est pas encore ouvert.


Publication originale Saudi Gazette, traduction Contre Info

jeudi, 21 mai 2009

Encerclement de l'Iran (6/6) + Bibliographie

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (6/6)

par Robert STEUCKERS

L’Iran d’hier et d’aujourd’hui: un obstacle à l’émergence d’un “Grand Moyen Orient” sous domination américaine

Ces réflexions, issues des mémoires de Houchang Nahavandi, nous permettent, enfin, d’énoncer notre deuxième batterie de conclusions.

◊ L’encerclement de l’Iran a pour objectif d’éliminer le dernier obstacle sur la voie de la constitution du marché commun du “Grand Moyen-Orient”. L’Iran en est en même temps la pièce centrale, le centre territorial d’une périphérie qui, au cours de l’histoire, a été plus ou moins influencée par la “civilisation iranienne”. On parle aussi de “Nouvel Orient énergétique” dans la littérature géopolitique et géo-économique actuelle. Avec, en plus, la Corne de l’Afrique (Somalie, Ethiopie, Kenya), cette région correspond à l’USCENTCOM, soit le Commandement américain du “Centre” de la masse continentale eurasiatique, entre le territoire où s’exerce l’USEUCOM, Commandement américain en Europe et en Afrique, et celui de l’USPACOM, le Commandement américain du Pacifique, qui s’étend de l’Inde à la Nouvelle Zélande et de l’Australie au Japon. Dans le Vieux Monde, le “Grand Moyen-Orient” ou “Nouvel Orient énergétique” constitue bien le centre géographique et géostratégique du grand continent “eurafricasien”, dont l’Iran est l’une des pièces maîtresses, constituant de la sorte un espace charnière. La création d’un marché commun dans cette zone, qui servira essentiellement de débouché pour l’industrie américaine en perte de vitesse, qui en fera un nouvel espace de chasse jalousement gardé et en excluera impitoyablement tous autres partenaires, y compris les “alliés” européens, japonais ou indiens. Cette exclusion de tous se devine déjà clairement quand on voit le sort qui a été fait aux deux projets successifs de diversification, émis par les deux Shahs de la dynastie Pahlavi, et elle se constate quand on voit avec quelle célérité les firmes européennes ont été évincées de tous les marchés de reconstruction de l’Irak.

Les bases américaines de l’USCENTCOM encerclent donc l’Iran aujourd’hui et préparent sinon son invasion, du moins son étouffement lent. Notons, à la lumière de l’histoire pluri-millénaire de l’Iran, que l’USCENTCOM occupe précisément tous les territoires dont les empires perses successifs ou les empires non perses maîtres de l’Iran, avant ou après l’Islam ont eu besoin afin de s’assurer un équilibre stratégique ou des frontières “membrées” (pour reprendre la terminologie de Vauban et Richelieu): 1) la Transoxiane, qui correspond à l’Ouzbékistan actuel (avec toutefois un ressac récent, encaissé par les Américains: l’expulsion de la base de l’USCENTCOM en Ouzbékistan à la suite d’une campagne de dénigrement contre le président et le pouvoir ouzbeks, orchestrée par les grandes agences d’Outre-Atlantique); 2) l’Afghanistan, prolongement pré-himalayen et iranophone des empires du plateau iranien, auquel l’Iran récent n’a jamais renoncé (le dernier Shah le souligne, de manière évidente et en caractères gras, dans sa “réponse à l’histoire”, réf. infra); 3) les Américains campent également en Irak, soit dans cette Mésopotamie dont le contrôle a fait la puissance de tous les empires perses et qui était l’enjeu du conflit entre Rome et les Parthes. Dans un tel contexte, l’Iran est condamné à un lent étouffement, à une stagnation irréversible qui génèrera des troubles intérieurs, qui seront immédiatement exploités, amplifiés et répercutés.

L’Iran: éliminé en deux temps – un projet programmé depuis longtemps

◊ L’Iran est l’objectif d’une stratégie de longue haleine, qui s’est déployée en deux temps: d’abord par l’élimination du Shah, de sa politique d’émancipation, d’industrialisation, de diversification commerciale et énergétique (déjà le nucléaire!), d’indépendance nationale et diplomatique, de rayonnement dans l’Océan Indien (jusqu’en Australie) et de sa marine de guerre (aussi modeste ait-elle été face à la colossale puissance maritime américaine). Pour éliminer cet autocrate avisé, on a monté une révolution de toute pièc, en appuyant tous les illuminés marxistes et autres et en sortant du placard un vieux leader religieux démonétisé et inculte. Pour mener à bien cette opération, on a mobilisé tout l’appareil médiatique occidental: du New York Times où Richard Falk décrivait, avec ce lyrisme coutumier des machines propagandistes américaines, l’humanisme de Khomeiny (Piccolomini et Erasme, Mélanchton et von Hutten doivent se retourner dans leurs tombes!), à un Professeur James Cockraft de la Rutgers University qui prévoyait, sous la houlette de Khomeiny, une ère de “liberté totale” et de “multipartisme”, au Sénateur démocrate Edward Kennedy (le frère de l’autre) qui décrivait le Shah comme le pire monstre ayant traîné ses godasses sur notre pauvre vieille terre; d’autres figures entrent dans la danse: le Sénateur Church mène campagne contre l’Iran. George Ball se rend à Téhéran pour exhorter tous les ennemis du Shah à le combattre. En même temps, les Etats-Unis, Israël et la Grande-Bretagne refusent de vendre des matériels anti-émeute à l’Iran, condamnant les forces de police impériales à l’impuissance. Les ondes sont mobilisées: la Voix de l’Amérique, la Voix d’Israël et surtout la BBC se mettent au service de l’opposition au Shah: ce sont ces radios-là qui assurent la logistique des émeutiers en transmettant les ordres des opposants et des mollahs, en donnant heures et lieux des manifestations contre le régime et pour Khomeiny. Le Général Huyser, commandant en chef adjoint des forces de l’OTAN, est envoyé en Iran pour une mission d’urgence: demander au Shah de déguerpir et neutraliser l’armée iranienne. Une fois le monarque parti sous la pression de Huyser, les officiels américains Richard Holbrooke, Leslie Gelb et Anthony Lake rédigent un rapport, dans lequel il est écrit: “Nous avons acquis la certitude que le système de gouvernement théocratique adopté par Khomeiny était de bonne augure pour les intérêts américains” (cité par H. Nahavandi, pp. 199-200).

L’objectif des Américains, en installant une théocratie qu’ils ne prenaient pas au sérieux, était de freiner et d’arrêter le programme militaire autonome de l’Iran, afin que celui-ci ne devienne pas une puissance régionale sur le “rimland” de l’Océan Indien, dans une région qui avait été impériale dans l’antiquité et était de toute évidence prédéstinée à jouer ce rôle, et dont l’influence s’était étendue sur la frange méridionale de la “Terre du Milieu”, décrite par MacKinder dans ses traités de géopolitique. Mieux: l’Iran avait toujours reçu des impulsions constructives de cette périphérie centre-asiatique conquise dès la proto-histoire par les peuples cavaliers indo-européens, dont les cosaques des tsars pouvaient se poser comme les héritiers légitimes. Si l’Iran du Shah Mohammad Reza Pahlavi se dotait d’une armée, qui deviendrait ipso facto la sixième du monde, l’impérialité persane antique pouvait ressusciter et s’allier au plus offrant. Le risque était énorme. Il fallait l’éliminer. Houchang Nahavandi rappelle que l’armée a tenté d’ailleurs de s’opposer à la prise du pouvoir par les théocrates islamistes, y compris une partie du clergé chiite, dont l’Hodjatoleslam Béhbahani, qui arrangua les 300.000 manifestants du 25 janvier 1979, accourus pour témoigner leur solidarité avec l’empereur. Béhbahani sera assassiné quelques jours plus tard. En effet, tout le clergé chiite, exposant d’une religiosité islamo-persane de grande profondeur mystique et historique, n’a pas suivi la révolution islamiste: l’Ayatollah Sayed Kazem Shariat-Madari appelle le Shah et l’armée à la fermeté. Sa position dans la hiérarchie chiite est si élevée qu’il ne sera pas assassiné tout de suite. Il sera arrêté en 1982, torturé, exhibé à la télévision. Il mourra en 1986 sans jamais avoir pu se faire soigner par un médecin de son choix.

Les figures étranges du premier “Conseil de la Révolution islamique”

Houchang Nahavandi note que dans le premier “Conseil de la Révolution Islamique” figurait Mustafa Tchamran, qui possédait la double nationalité, américaine et iranienne, qui fondera les services secrets de la république islamique, puis exercera les fonctions de ministre de la défense. Autant de positions clefs! Il sera assassiné ultérieurement par, dit-on, des “agents contre-révolutionnaires” ou des inconnus posés comme “agents irakiens”. Les auteurs de l’assassinat n’ont jamais été retrouvés. Un hasard? Mieux: Ibrahim Yazdi est aussi un Américano-Iranien. Il devient vice-premier ministre, puis ministre des affaires étrangères du cabinet Bazargan. C’est lui qui présidera les tribunaux révolutionnaires, sera responsable de l’élimination des militaires (généraux Rahimi, à qui il fit couper une main avant son exécution, Pakravan, Moghadam, Khosrodad, Nassiri et Nadji) et de son prédécesseur Abbas Khalatbari, ministre des affaires étrangères des cabinets Hoveyda et Amouzegar. Ce personnage est toujours en vie. Il a éliminé des témoins gênants. Mieux encore: Houchang Nahavandi rappelle que les membres effectifs des conseils secrets ne sont pas connus: parmi eux, combien d’Américano-Iraniens? Autre fait troublant: le nombre ahurissant de ces membres du premier conseil qui ont été assassinés, sans que l’on ne découvre jamais les auteurs de ces éliminations, tous supposés “contre-révolutionnaires”. Houchang Nahavandi rappelle aussi que “plus de 1200 officiers et sous-officiers ont été mis à mort par les révolutionnaires, souvent sans même une parodie de justice (…). 400 autres, presque tous de l’armée de l’air, ont été massacrés deux ans plus tard après la découverte d’un projet de coup d’Etat; dont 128 pilotes brevetés au cours des quarante-huit heures qui ont suivi cette découverte. L’une des plus puissantes et plus performantes aviations militaires du monde fut ainsi réduite à presque rien. Huit mille autres officiers et sous-officiers ont été rayés des cadres sans aucune indemnité”.

Un procédé avéré depuis la révolution française

◊ La deuxième étape de l’élimination de l’Iran se déroule selon un procédé avéré depuis la révolution française. L’historien Olivier Blanc nous a rappelé, dans Les hommes de Londres. Histoire secrète de la Terreur (Albin Michel, 1989), que les services secrets britanniques de Pitt, avaient fomenté des dissensions à l’infini en France, soutenant tout à la fois des royalistes et des républicains extrémistes, afin que règne le chaos dans un pays qui devait être complètement désorganisé, afin de devenir totalement impuissant et surtout de ne plus avoir assez de fonds pour bâtir une flotte et dominer les mers. D’autres diront que les révolutions russes de 1905 et de 1917 ont des origines similaires. Si le pays, visé par une telle stratégie, se rétablit, on participera à toutes les coalitions contre lui. La révolution iranienne entre parfaitement dans ce schéma, correspond à ce “modus operandi”. Le rétablissement d’un nouvel ordre politique, à références “révolutionnaires” permet alors de démoniser le pays: ce fut le cas de la France révolutionnaire et napoléonienne; ce fut le cas de la révolution mexicaine de Pancho Villa (d’abord décrit comme un “sauveur” puis comme un “monstre”); ce fut le cas de la révolution bolchevique. L’Iran n’échappe pas à la règle. Mais l’illégitimité du nouveau pouvoir, républicain en France, bolchevique en Russie, islamiste en Iran, ne lui procure pas la stabilité voulue: il existe des leviers, par le biais de contre-révolutionnaires et de mécontents, pour disloquer sa cohésion, pour entretenir le dissensus, pour le miner de l’intérieur; on peut lui appliquer les techniques du boycott, du blocus ou de l’embargo. On met des bâtons dans les roues de sa diplomatie, on le dénigre dans les chancelleries. Les machines médiatico-propagandistes peuvent dès lors fonctionner à fond et entretenir systématiquement une attitude de réprobation à l’endroit du pays visé. Personne ne se dresse pour le défendre, sans éveiller des méfiances rédhibitoires. Parce que beaucoup de situations de fait inacceptables, beaucoup de faits accomplis relevant de l’arbitraire, beaucoup de déclarations et de proclamations insoutenables, empêchent de le défendre intelligemment.

Tel est le sort de l’Iran, aujourd’hui, au beau milieu du territoire dévolu à l’USCENTCOM. Après la conquête américaine de l’Afghanistan et de l’Irak, l’Iran sait qu’il doit se doter de l’arme nucléaire pour éviter le même sort, bien que l’immensité de son territoire et les effectifs limités de l’US Army le met à l’abri d’une occupation similaire. Les Etats-Unis ne disposent pas vraiment d’alliés dans la région, prêts à s’embarquer dans l’aventure et qui demanderaient des compensations que Washington ne peut offrir, car les Etats-Unis veulent conserver tous les avantages du pays envoyé au tapis pour eux, comme en Irak. Le risque que court l’Iran est d’être étouffé par des blocus et des embargos, tout en subissant des bombardements au départ des bases de l’USCENTCOM. Ces bombardements et ces blocus viseraient à meurtrir profondément la population civile dans sa vie quotidienne, à susciter chez elle une lassitude face au pouvoir islamiste, à provoquer à moyen ou long terme une révolution intérieure, où des éléments disparates —anciens communistes, partisans nostalgiques des Pahlavi, démocrates occidentalistes, minorités ethniques sunnites— entreraient en rébellion ouverte contre le pouvoir islamiste-chiite de Téhéran et d’Ahmadinedjad.

L’Europe ne peut accepter une élimination de l’Iran en tant que nation indépendante

Malgré la réprobation que peut susciter la révolution islamiste, surtout du fait qu’elle a été une fabrication américaine, l’Europe ne peut toutefois accepter une élimination de l’Iran en tant que nation indépendante, autorisée à déterminer sa politique étrangère et son commerce extérieur. Quel qu’en soit le régime. L’Iran est un débouché pour l’Europe et un fournisseur éventuel de pétrole. Il aurait donc mieux valu conserver les relations économiques qui existaient du temps du Shah. Et conserver le maximum de relations commerciales avec le pouvoir islamiste, de façon à occuper le terrain avant tous nos concurrents. L’Europe ne doit pas agir sous la dictée des médias, en apprence indépendants, mais qui obéissent aux injonctions d’une politique étrangère toujours programmée de longue date. Au contraire, Armin Mohler nous enseignait de prendre toujours le contre-pied des programmes d’action induits par la propagande médiatique américaine. Si les Etats-Unis décrètent tel ou tel pays “infréquentable”, ce doit être une raison supplémentaire pour le fréquenter et entretenir avec lui de bonnes relations. Si une telle politique, qualifiable de gaullienne et, mieux, de “mohlerienne”, avait été suivie en 1978-79, le Shah serait resté en place: la sidérurgie européenne en aurait tiré profit et n’aurait pas connu la banqueroute; nous y aurions vendu des armes et des équipements civils, des avions et des navires. Nous aurions pu en investir les bénéfices dans de nouvelles technologies. Nous venons de perdre l’Irak, où les firmes françaises, allemandes et russes ont été exclues du marché, de même que l’agro-alimentaire danois, malgré l’alignement de Copenhague sur la politique de Washington; la cabale des caricatures de Mahomet, bien orchestrée via tous les médias du globe, a exclu l’agro-alimentaire danois, très performant, de tout le futur “Grand Moyen-Orient”. Nous ne pouvons donc pas nous permettre de perdre l’Iran de la même façon. Ce serait nous couper pour longtemps d’une région importante du monde et ce serait un ressac terrible pour notre économie.

Il reste à espérer que Moscou et Beijing s’opposeront à toute intervention américaine en Iran. Il n’y a rien à attendre de l’Europe d’aujourd’hui. L’axe Paris-Berlin-Moscou n’a été qu’un espoir. Nos dirigeants n’ont pas été à la hauteur de ce projet, mais il fallait s’y attendre. Cependant, pour ceux qui ont encore la volonté et l’honneur de s’insérer dans la continuité de l’histoire européenne, l’Iran demeure l’espace du premier empire de facture indo-européenne, un espace qui a amené les langues et la culture européennes jusqu’à l’Indus et au Gange, et, si l’on tient compte des peuples de cavaliers proto-iraniens, jusqu’au Tarim et sans doute jusqu’au Pacifique voire jusqu’au Japon. De l’Ecosse au Bengale. Des Pyrénées au Pacifique. Une mémoire qui oblige. Devrait obliger. Que nous voulons honorer. L’unité stratégique de cet espace nous donnerait à tous la puissance, nous redonnerait les rênes du monde.

Robert STEUCKERS,
Forest-Flotzenberg / Nancy, novembre 2005.

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Ouvrage paru après la première composition de cet article:

- Jean-Paul ROUX, Histoire de l’Iran et des Iraniens. Des origines à nos jours, Fayard, Paris, 2006.

 

mercredi, 20 mai 2009

Encerclement de l'Iran (5/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (5/6)

par Robert STEUCKERS

Matrices territoriales afro-asiatique, élamo-dravidienne et indo-européenne: la conclusion de Colin McEvedy

La matrice indo-européenne procède d’une “Urheimat” de départ beaucoup plus vaste que celles, réduites, que l’on avait imaginées jusqu’ici. Toujours selon Colin McEvedy, il ne faut pas réduire la matrice territoriale indo-européenne (ni l’afro-asiatique ni l’élamo-dravidienne) à une zone trop restreinte, réduite à un petit espace géographique confiné, mais l’étendre à un espace assez vaste, car la mobilité proto-historique a été une réalité trop peu prise en compte jusqu’ici: les Afro-Asiatiques s’étendaient de l’Atlantique marocain actuel à l’ensemble de la péninsule arabique; les Indo-Européens —et McEvedy rejoint en cela l’archéologue allemand Lothar Kilian— de la Mer du Nord (Norvège, Danemark, Pays-Bas) au delta de la Volga dans la Caspienne; la matrice élamo-dravidienne, quant à elle, s’étendait des côtes actuellement iraniennes du Golfe jusqu’au sous-contient indien. Pour McEvedy, seules les matrices ouest-méditerranéennes et caucasiennes de la proto-histoire disposaient d’un territoire plus réduit: péninsule ibérique, bassin de la Garonne, côtes et arrière-pays de Provence, Etrurie-Toscane pour la première; Caucase et Nord-Est de la Turquie actuelle, pour la seconde. Colin McEvedy: “Quelques [archéologues] ont suggéré que le “homeland” original des Indo-Européens correspondait à une zone [allant de la Mer du Nord au Turkestan]. Cette idée est étayée par le fait qu’il n’y a aucun nom de rivière autre qu’indo-européen au sein de ce territoire. Pour le lien récemment démontré entre Elamites et Dravidiens, nous concluons désormais que la Heimat originelle de ce groupe nouvellement baptisé élamo-dravidien a au moins 3000 km de longueur. Nous savons déjà que le groupe afro-asiatique s’étendait sur un espace de 5000 km de longueur d’Est en Ouest. Il semble donc extrêmement improbable qu’un groupe aussi efficace que l’ont été par la suite les Indo-Européens, ait disposé d’un territoire plus réduit que les Afro-Asiatiques et les Elamo-Dravidiens”.

Le territoire d’origine des peuples européens correspond donc plus ou moins à l’espace européen actuel, Russie comprise. L’Iran traditionnel, de Zarathoustra au dernier Shah, se perçoit comme une émanation de cette matrice européenne, comme le produit d’une irruption constructive, bâtisseuse d’empires, dans les espaces élamo-dravidien et sémitique, amorcée vers -1800. Si au départ, cette vision avait une connotation raciale évidente, le brassage continu des peuples dans cette zone a, par la force des choses, fait disparaître le caractère purement racialiste de cet idéal d’irano-européité, pour faire place à la notion intégrante et impériale de “civilisation iranienne”, défendue par Reza Khan Pahlavi, et, dans une moindre mesure, par son fils (qui, pour éviter affrontements et dissensions intérieures, devait composer avec l’islam, qui ne lui a pourtant manifesté aucune gratitude).

La “civilisation iranienne”, pour le dernier des Pahlavi, était le patrimoine iranien, qu’il convenait de réhabiliter contre l’ignorance dans laquelle était plongé le peuple d’Iran, faute d’écoles et d’instituteurs et, à ses yeux, à cause de l’islam. Pour Mohammad Reza Pahlavi, il fallait réactiver les forces du passé iranien en multipliant bibliothèques, instituts, universités, initiatives culturelles. Dans son mémoire en défense, face à l’histoire future et face à l’échéance fort brève que lui laissait la maladie qui le rongeait, il a écrit ces paroles pertinentes: “Cette conception selon laquelle tout ce qui appartient au passé est réactionnaire, antiprogressiste ou dépassé, fort répandue dans une certaine bourgeoisie citadine, avait porté à dénigrer la culture proprement iranienne, à négliger les oeuvres d’art léguées par le passé”. Les nouveaux programmes scolaires, déjà imaginés par son père, devaient remédier à cette déliquescence, fruit funeste de l’urbanisation; par ailleurs, des programmes de télévision et de radio-diffusion étaient appelés à faire revivre, avec succès, l’ancienne musique persane, qui, sinon, serait tombée aux oubliettes. Ce recours aux valeurs sûres du passé, aux archétypes, consolidateurs de toute durée historique et de toute continuité impériale, voulu par Reza Khan et son fils, était pourtant contemporain, dans les années 60 et 70, d’un futurisme culturel, porté par des avant-gardes audacieuses, souvent patronnées par la troisième épouse de Mohammad Reza Shah, la Shabanou Farah Diba.

Révolution Blanche, Démocratie impériale et Grande Civilisation

La référence à la “civilisation iranienne”, chez le dernier Shah, qui cite en ce sens l’iranologue français du 19ième siècle, Gobineau, devait être le prélude à un vaste projet géopolitique, baptisé “Grande Civilisation” et soutenu, en Iran, par la “révolution blanche” et le système dit de la “démocratie impériale”. D’inspiration clairement zoroastrienne et sur le modèle de l’empire de Cyrus, cette marche en direction de la “Grande Civilisation” devait mener l’Iran vers une révolution “anamorphique”, où il aurait été tiré vers le haut par la volonté impériale. L’Iran aurait alors été le modèle à suivre pour ses voisins. Cette révolution intérieure impliquait de poursuivre, en politique extérieure, le projet constructif de susciter et de consolider une vaste solidarité de tous les riverains du Golfe Persique et de l’Océan Indien. Le Shah prévoyait de bonnes relations avec l’URSS et les pays européens du COMECON (dont la Roumanie). Sa diplomatie a indubitablement connu de beaux succès et, notamment, a conduit à la paix avec l’Irak en 1975, grâce au règlement du trafic fluvial et maritime dans le Chatt-el-Arab’ mis au point par le Traité d’Alger; a apporté, avant l’entrée des troupes soviétiques dans le pays, une aide à l’Afghanistan isolé et enclavé (un type d’ingérence iranienne dont ne veulent pas les puissances anglo-saxonnes, comme en 1837 et en 1857); a forgé une alliance tacite avec le Pakistan (mais sans braquer l’Inde); a formulé le projet d’une politique commune avec Singapour et l’Australie pour amener la paix dans tout l’espace de l’Océan Indien (suscitant du même coup des lézardes dans le camp anglo-saxon, dont l’Australie est une pièce maîtresse, mais qui ruait dans les brancards à l’époque, allant jusqu’à doter son aviation de Mirages français).

En déployant cette diplomatie originale et de grande envergure, le Shah profitait de la nouvelle doctrine nixonienne, prévoyant de laisser les alliés des Etats-Unis organiser en toute autonomie leur environnement. Mais les Démocrates challengeurs, puis vainqueurs des élections après la disgrâce de Nixon, suite au scandale du Watergate, avaient d’autres projets, prévoyant notamment la fin de ces autonomies, jugées incontrôlables à long terme, et le ré-alignement inconditionnel des alliés moyen-orientaux sur les politiques américaines, en dépit des principes pragmatiques de la Realpolitik et en dépit des alliances et des fidélités proclamées depuis quelques décennies: la chute de Nixon allait de ce fait entraîner la fin de l’autonomie iranienne dans le contexte délicat et effervescent du “Grand Moyen-Orient”, puis, par fatalité, l’érosion du pouvoir du Shah et, finalement, sa chute. L’entourage de Jimmy Carter, comme avant lui celui de John Kennedy, est hostile au Shah. Il prend un net recul par rapport à la Realpolitik du duo Nixon/Kissinger et introduit le ferment “moraliste” et “droit-de-l”hommesque” dans l’orbe de la politique internationale. Ce fut le début d’une ère de calamités, d’un véritable ressac éthique dans toute l’américanosphère occidentale sous le masque d’une sur-éthique hyper-moralisante, gonflée artificiellement et démesurément par la propagande médiatique, dont on mesure bien les conséquences aujourd’hui, surtout après qu’une nouvelle génération de Républicains, juste avant Reagan puis dans son sillage, a, elle aussi, abandonné la Realpolitik classique pour pimenter et corser le “moralisme” cartérien de discours apocalyptiques, dérivés d’un biblisme religieux protestant et puritain (avec de nouveaux vocables propagandistes tels: “l’empire du Mal”, “l’axe du Mal”, etc.). En règle générale, avant 1978, les Républicains étaient favorables au Shah au nom d’une Realpolitik traditionnelle, qui commençait toutefois à s’éroder; les Démocrates, héritiers de l’idéologie mondialiste et militante de Roosevelt, lui étaient hostiles, à l’exception de Lyndon Johnson.

Cette mutation funeste dans la politique de Washington à l’endroit du régime du Shah, nous induit à développer quelques préliminaires, pour bien saisir notre deuxième batterie de conclusions, celles qui portent, non pas sur l’histoire pluri-millénaire de l’Iran, dont la connaissance reste toutefois un impératif de la raison politique, non pas davantage sur le rôle des facteurs déjà évoqués, qui sont de nature idéologique, religieuse ou ethnique, mais sur la situation géopolitique et géostratégique actuelle, où l’Iran est bel et bien encerclé, pris en tenaille dans un réseau dense de bases américaines, installées en Transoxiane (Ouzbékistan), en Afghanistan et en Irak. C’est-à-dire dans tous les espaces stratégiques, dans tous les glacis ou zones de réserve, qui ont permis à l’Iran, à un moment ou à un autre de son histoire, de rayonner sur son environnement, de consolider les assises de la “civilisation iranienne”, de s’étendre et de survivre.

Washington contre Téhéran

Houchang Nahavandi, dans le chapitre (XI) à nos yeux le plus important de son livre sur la “révolution iranienne”, et qui s’intitule précisément “Washington contre Téhéran”, récapitule toutes les étapes des relations américano-iraniennes depuis 1941, année de l’invasion anglo-soviétique et de l’abdication forcée de Reza Shah. Pour l’Iran, la Grande-Bretagne et la Russie étaient les deux puissances ennemies par excellence, celles qui menaçaient l’intégrité territoriale iranienne. L’ennemi principal était britannique, car il colonisait toute l’exploitation des pétroles d’Iran, par le biais de l’”Anglo-Persian Oil Company”, puis de l’”Anglo-Iranian Oil Company”, et visait une satellisation du pays, permettant d’installer une continuité territoriale sans aucune interruption entre les possessions ou protectorats britanniques situés, d’une part, entre l’Afrique du Sud et l’Egypte, et, d’autre part, entre la frontière égypto-libyenne et la Birmanie.

Après 1918, Londres n’avait plus réellement les moyens de réaliser une politique aussi grandiose, rêve de Cecil Rhodes: l’hypertrophie impériale dans la zone de l’Océan Indien était devenue une réalité fort préoccupante, jetait les derniers feux d’une démesure sans solution donc générait une frustration qu’on ne voulait pas avouer. Reza Khan, devenu Reza Shah en 1926, était, par sa personne et par sa forte volonté de colonel cosaque, un obstacle de taille au projet jadis rêvé par Rhodes. Reza Shah composait avec les Soviétiques, car il était plus russophile qu’anglophile comme nous venons de le voir, mais ne contestait pas encore fondamentalement le monopole anglais sur les pétroles iraniens. Il entendait toutefois diversifier ses relations avec les pays occidentaux industrialisés et avec le Japon: des milliers d’ingénieurs allemands et italiens travaillaient en Iran et les relations commerciales germano-iraniennes étaient fort avantageuses pour Téhéran. Des consortiums scandinaves avaient réalisé la prouesse technique d’achever en onze ans de travaux titanesques le tracé de la voie ferroviaire transiranienne entre le Golfe et la Mer Caspienne, avec des ouvrages d’art stupéfiants, dans des territoires montagneux quasiment vierges. L’Allemagne livre les locomotives. L’Italie et le Japon avaient livré à la marine iranienne naissante des bâtiments de guerre destinés à contrôler les eaux du Golfe. Les officiers de la marine avaient été formés en Italie. Quand les troupes allemandes et leurs alliés envahissent l’URSS en juin 1941 et bousculent les armées soviétiques massées le long de la ligne de démarcation de septembre 1939, l’URSS devient ipso facto l’alliée de la Grande-Bretagne. Les deux puissances décident d’occuper l’Iran neutre, de façon à pouvoir approvisionner l’URSS par la Caspienne et l’axe fluvial de la Volga. L’armée de Reza Shah résiste, les villes iraniennes sont bombardées, la marine iranienne est anéantie dans le Golfe et y perd quasiment tous ses officiers. La garnison de Kermanshah bloque provisoirement l’avance britannique, mais le rapport des forces est évidemment au détriment de l’Iran: le 27 août, le Shah est contraint de demander la cessation des hostilités. En septembre 1941, il abdique en faveur de son fils Mohammad Reza. Il est emmené en captivité en Afrique du Sud où il meurt en 1944 d’un cancer que l’on n’a sans doute pas voulu soigner convenablement.

Les Etats-Unis en Iran pendant la deuxième guerre mondiale

Les Etats-Unis, qui n’entrent en guerre qu’en décembre 1941, ne sont, aux yeux des Iraniens, qu’un troisième comparse, débarqué plus tard, ne sont pas les envahisseurs directs, mais une puissance qui arrive dans la guerre, après la violation délibérée de la neutralité du pays et après les opérations militaires qui ont frappé durement les civils des villes, l’armée iranienne et sa marine. L’Amérique n’est donc pas perçue en Iran, pendant la seconde guerre mondiale, comme une puissance occupante. Elle n’est pas présente visiblement par des déploiements de troupes et des patrouilles; seuls des ingénieurs civils organisent voies ferroviaires et installations portuaires. Pour Nahavandi, les relations cordiales entre l’Iran et les Etats-Unis commencent surtout au lendemain de la deuxième guerre mondiale, quand les Soviétiques refusent d’évacuer le nord du pays et les régions azerbaïdjanaises, qu’ils avaient occupées et où ils avaient organisé un mouvement séparatiste, appelé, à un stade ultérieur, à proclamer l’union de la nouvelle république séparée avec l’URSS. Truman menace Staline, qui cède, et l’intégrité du territoire iranien est ainsi sauvegardée. Ce coup d’éclat scelle l’amitié irano-américaine que le Shah n’oubliera jamais, vouant à Washington une fidélité honnête et dépourvue d’arrière-pensées, qui se révèlera, in fine, pure naïveté. Et le conduira à sa perte.

En 1953, les Etats-Unis, foulant aux pieds cette amitié que leur voue sincèrement le jeune Shah, soutiennent d’abord le nationaliste Mossadegh, en voyant d’un bon oeil la fin du monopole britannique sur les pétroles d’Iran, que Téhéran entend nationaliser. Mais quand Mossadegh doit s’allier au “Toudeh” communiste pour consolider sa majorité en faveur des nationalisations, la CIA change d’avis, par crainte d’une absorption soviétique de l’Iran tout entier ou d’un alignement sur Moscou, et participe aux opérations visant le renversement du ministre nationaliste. Le Shah doit donc une nouvelle fois sa survie et son trône à l’action énergique des Américains. Les relations entre l’Iran et les Etats-Unis restent bonnes entre août 1953 (date de la chute de Mossadegh) et 1961, avec l’arrivée au pouvoir de l’Administration Kennedy. Celle-ci veut se débarrasser du Shah et fomente un coup d’Etat des services secrets iraniens, la fameuse SAVAK. La tentative se solde par un échec. L’assassinat de Kennedy met fin à cette nouvelle politique de volte-face. Lyndon Johnson reconduit l’alliance entre Washington et le Shah.

“Révolution blanche” et diversification

A partir de 1965, les Etats-Unis chercheront toutefois à forcer un changement en Iran. L’année 1965 est marquée par le conflit entre l’Inde et le Pakistan. Lié au Pakistan par le pacte militaire pro-occidental du CENTO, l’Iran soutient son allié, par l’effet du lien contractuel inhérent au traité mais aussi par solidarité musulmane et parce que l’Inde, qui décroche finalement la victoire, recevait le soutien de l’URSS. Malgré cette fidélité aux alliances pro-américaines, trois facteurs contribuaient à brouiller, simultanément et en coulisses, les rapports irano-américains.

- D’abord, les effets de la “révolution blanche”, commencée en 1961, avec partage des terres de la Couronne et des latifundia entre les paysans, l’alphabétisation et l’émancipation des femmes. Ces démarches, nécessaires à l’avancée du pays, provoquent une forte résistance de la part des grands propriétaires terriens, des chefs de tribus et du clergé chiite. En octobre 1963, à la suite de désordres semés par Khomeiny, celui-ci est banni d’Iran. Washington craignait que la “révolution blanche” ne génère une déstabilisation du pays et ne provoque un effet de contagion dans d’autres Etats alliés, y compris en Amérique latine. La leçon à tirer de ces événements, c’est que les Etats-Unis ne tolèrent aucune réforme sociale en profondeur, qu’elle soit portée par une idéologie marxiste-léniniste ou par des mesures pratiques et non idéologiques, parfois autocratiques, comme dans l’Argentine de Péron ou l’Iran du Shah ou la France de De Gaulle hier, ou dans le Vénézuela de Chavez aujourd’hui. Pour les Etats-Unis, c’est clair, les Etats alliés doivent vivoter sous des démocraties qui ne génèrent que le désordre, l’enlisement et la corruption, afin de freiner et de bloquer les initiatives originales, sans modèle préconçu tiré d’une idéologie trop souvent irréaliste, mais taillées chaque fois à la mesure du peuple auquel elles s’adressent, leur donnant véritablement à terme la liberté et l’autonomie sur le plan intérieur et sur la scène internationale.

- Ensuite, la défaite, face à l’Inde en 1965, du Pakistan, qui dépendait entièrement des Etats-Unis et de la Grande-Bretagne pour son armement, fait craindre au Shah un sort similaire pour l’Iran en cas de coup dur. L’Iran doit donc s’autonomiser et chercher à diversifier ses sources d’approvisionnement en technologies avancées, tant les militaires que les civiles. Houchang Nahavandi cite, à ce propos, un rapport de 1966 de l’ambassadeur américain à Téhéran à l’époque, Armine Mayer: “La crise de septembre 1965 entre l’Inde et le Pakistan a persuadé le Shah qu’une dépendance excessive de la défense iranienne à l’égard des Etats-Unis pourrait réserver à l’Iran le même sort que le Pakistan. Il recherche sa liberté de mouvement”. Le Shah cite de plus en plus souvent De Gaulle en exemple. Et passe à la pratique: il commande en Europe. Et signe des contrats avec l’URSS. Il vise le développement d’une industrie iranienne autonome des armements. Le Shah devient un “ennemi” potentiel: on le traite de “dangereux mégalomane” et même de “cinglé”, injures que Péron et De Gaulle avaient également essuyées. L’enseignement à tirer de cette volonté de diversification du Shah, c’est, bien sûr, que les Etats-Unis ne tolèrent aucune forme de diversification et d’autonomie. La diversification voulue par Mohammad Reza Shah avait connu une précédence: celle réalisée par son père dans les années 20 et 30, avec le concours des Scandinaves, des Allemands et des Italiens. Pire: avec l’argent du pétrole, au début des années 70, le Shah acquiert 10% du capital d’Eurodif, ce qui aurait pu permettre à l’Iran, à terme, de se doter de technologies nucléaires, tant militaires que civiles. L’hostilité à un Iran doté de technologies nucléaires ne date donc pas de ces dernières années et ne relève pas d’une inimitié viscérale à l’endroit de la seule révolution islamiste, qui serait l’expression radicale et musulmane du fameux “choc des civilisations”, théorisé dès 1993, dans les colonnes de Foreign Affairs, par Samuel Huntington.

L’OPEP, la hausse des prix du pétrole et l’émergence de l’agitation islamiste

- Enfin, la hausse des prix du pétrole, décidée par l’OPEP, avait reçu l’approbation du Shah et du roi Fayçal d’Arabie Saoudite (assassiné en 1975). Kissinger, qui, comme les autres, commence à émettre des doutes, à s’aligner sur le camp anti-iranien, finit par vouloir, lui aussi, le départ du Shah, mais ne cherche pas à brusquer les choses, car il entend agir dans le cadre d’une diplomatie traditionnelle de type bismarckien; Kissinger refuse également de mettre les ventes d’armes américaines à l’Iran en danger; il entend conserver au moins cet atout, qui permet un contrôle indirect de l’armée iranienne, à laquelle, le cas échéant, on ne livrerait pas de pièces de rechange. En même temps, Kissinger veut bloquer tout développement et toute prospérité aux firmes européennes exportatrices d’armements. Les trois principaux reproches que Kissinger adresse au Shah sont les suivants: grâce aux plus-values du pétrole, le Shah va consolider son influence régionale, exercer ipso facto des pressions sur les Etats-Unis, transformer son pays en grande puissance. C’est à ce moment-là que Washington décide de parier sur le “fanatisme islamiste” et qu’émergent dans les débats stratégiques certaines des thèses de Brzezinski: insistance sur l’importance stratégique millénaire de la “Route de la Soie” qu’aucune puissance d’Eurasie ne peut dominer entièrement, utilisation de certains réflexes religieux musulmans intégristes pour déstabiliser les Etats qui deviendraient trop puissants dans cette zone, théorisation de la stratégie “mongole” visant à créer des dynamiques destructrices qui jettent à bas les régimes qui dérangent sans les remplacer par des structures politiques cohérentes et alternatives. A ce propos Houchang Nahavandi cite le politologue libanais Nicolas Nasr: “La promotion du fanatisme islamique, inspirée par Henry Kissinger et Zbigniew Brzezinski, visant à promouvoir la naissance d’Etats confessionnels dans la région, pourrait servir hautement les intérêts américains, … la promotion des principes coraniques, en bloquant le développement et toute modernisation dans les pays musulmans, profiterait idéalement au capitalisme américain et occidental, en conférant à ces pays sous-développés le statut de simple marché de consommation des produits industriels” (p. 187). “Les Etats-Unis veulent que les contrées riches en matières premières demeurent des zones économiquement et politiquement faibles, “molles”, susceptibles de receler de nombreux consommateurs potentiels, sans pour autant être en mesure de devenir des Etats forts du point de vue politico-militaire et technologique. Ils doivent rester “dépendants” et donc demeurer des “ventres mous” (p. 188). Ces axiomes de la politique américaine ne valent pas seulement pour l’Iran.

mardi, 19 mai 2009

Dirigente de Kirguistan denuncia permanencia de base aérea de EE.UU

Dirigente de Kirguistán denuncia permanencia de base aérea de EE.UU

El vicepresidente del Comité de Asuntos Internacionales de la Cámara Legislativa de Kirguistán, Kabai Karabékov, afirmó que todos los acuerdos referentes a la base que Estados Unidos emplazó en ese país asiático han vencido, y la permanencia de sus tropas es injustificada.

Insistió el líder parlamentario en que no existen razones para que efectivos del Pentágono permanezcan en Kirguistán.

El parlamento kirguís rescindió el respectivo acuerdo con Estados Unidos y otras once naciones de la llamada coalición antiterrorista. No se justifica que siga funcionando la base de Manas y permanezcan en ella militares extranjeros, reiteró el diputado.
Reiteró Karabékov que no se justifica que siga funcionando la base de Manas y permanezcan en ella militares extranjeros.

Karabékov fue tajante al advertir que todos los acuerdos sellados anteriormente perdieron ya su vigencia.


Con esas palabras el vicepresidente del comité parlamentario explicó la inutilidad de una propuesta del senado estadounidense de destinar 30 millones de dólares al desarrollo de la aeronavegación de Kirguiztán si este país acepta tropas de Washington en Manas.

Recientemente la secretaria de Estado de la potencia del Norte, Hillary Clinton, dijo a la prensa que se sentía confiada en que sea alcanzado un acuerdo.

En nombre de la lucha global contra el terrorismo, Manas fue inaugurada en 2001 de acuerdo con la ONU para apoyar la invasión de fuerzas de la OTAN encabezadas por Estados Unidos contra Afganistán.

Unos mil 200 efectivos estadounidenses y de otros países permanecen en ese enclave militar.

A tenor de una resolución aprobada por el parlamento kirguiz el 19 de febrero, las tropas foráneas tendrán que marcharse de ese cuartel 180 días después de invalidado el acuerdo, o sea en la primera mitad de agosto.

Extraído de Radio Habana Cuba.

Encerclement de l'Iran (4/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (4/6)

Reza Khan et le pan-iranisme

Pendant la première guerre mondiale, l’Iran se déclare neutre. Sa toute petite armée, réduite à l’impuissance, était organisée par des officiers suédois, la Suède conservatrice tentant toujours de faire diversion dans le sud, de s’y donner des alliés de revers, afin de récupérer la Finlande au nord. Dès le début des hostilités, les Russes violent le territoire au Nord et les Britanniques au Sud, sous prétexte de protéger les champs pétrolifères contre toute attaque germano-turque venue de Mésopotamie. Deux expéditions allemandes, dirigées par von Niedermeyer et Wassmuss, faiblement équipées, parviennent à soulever des tribus iraniennes et afghanes contre les Britanniques ou les Russes. Ces opérations de petite envergure obligent toutefois les Britanniques à mobiliser des milliers d’hommes pour tenter de les neutraliser. Les opérations de Wassmuss lui ont valu le surnom de “Lawrence allemand”. Après la guerre et après le Traité de Versailles, qui cherche à placer l’Iran tout entier sous la domination britannique, Reza Khan, par un coup d’Etat le 21 février 1921, prend le pouvoir, dépose le dernier Shah qadjar, le faible Ahmad Mirza, et fonde la dynastie des Pahlavi. Il compose avec les Soviétiques en 1924 pour obtenir la paix sur sa frontière septentrionale et pour se ménager les Soviétiques contre les Anglais, bien plus menaçants au sud et à l’est; l’objectif britannique étant d’inclure la Perse toute entière dans leur orbite pour “créer une continuité territoriale du Caire à Calcutta”. Pour contrer l’impérialisme anglais, le nouveau pouvoir bolchevique remet toutes les dettes que l’Iran devait à la Russie tsariste. De cette façon, l’Iran, redevable de sa sécurité financière à Moscou, cesse automatiquement de devenir un tremplin éventuel pour envahir l’Asie centrale soviétique.

Le 25 avril 1926, Reza Khan se fait couronner empereur. Il veut insérer son pays dans le 20ième siècle. Admirateur d’Atatürk, il souhaite doter le pays d’un système scolaire moderne, diminuer la dépendance face à l’Angleterre, réduire le pouvoir des religieux chiites, promulguer un code civil et enlever l’exercice de la justice au clergé, ce que ce dernier n’acceptera pas et ne pardonnera jamais. Le plus intéressant dans l’ensemble de ces innovations imposées d’autorité par le nouveau Shah est sa volonté de réhabiliter le passé iranien pré-islamique. Cette réhabilitation passe par la fondation d’une académie qui épure la langue persane de ses emprunts arabes. Mais, comment, par ailleurs, va s’articuler ce “persisme”? Quels en sont les ingrédients idéologiques, les lignes de force?

Le culte de Cyrus le Grand

◊ D’abord le culte de Cyrus le Grand, fondateur de l’impérialité perse. En dépit de 27 ans de pouvoir islamiste, les pèlerinages au site de son tombeau ne cessent pas. Cyrus est l’archétype de l’identité persane mais aussi un symbole de liberté et de tolérance dans l’exercice de la puissance impériale. Cyrus a toujours été un vainqueur magnanime, une “grande âme” (“magna anima”), qui réhabilitait les vaincus, contrairement aux Assyriens qui les décapitaient ou les empalaient. Les deux shahs de la dynastie pahlavi ont tenté d’introniser ce culte de la grandeur perse antique pour évincer un islamisme qu’ils jugeaient décadent, qu’ils considéraient comme un frein au développement de l’Iran. La période d’effervescence, qui a précédé la chute du dernier shah et le retour de Khomeiny, a été marquée par cette lutte idéologique: d’une part, les forces de gauche, comme le parti Tudeh, d’obédience communiste, posaient Cyrus comme un tyran, sapant de la sorte —et de manière préventive— les assises de toute monarchie et de tout retour à celle-ci, quand bien même la monarchie aurait été stabilisatrice et progressiste (au sens technique du terme), indépendantiste (anti-britannique et anti-américaine). L’idéologie du Tudeh voulait promouvoir un “avenir radieux” (pour paraphraser Zinoviev) et ne voulait rien avoir à faire avec le passé, avec des archétypes. Les partisans islamistes de Khomeiny entendaient, eux, ignorer le passé pré-islamique de la Perse et ne valorisaient que l’enseignement des “nobles récits” des héros de la tradition musulmane chiite. Pour le clergé chiite, il est inacceptable de valoriser des événements historiques antérieurs à l’islam, puisque, par définition, toute époque pré-islamique est considérée comme “jahilliya”, soit un “âge d’ignorance”. Ce sera surtout l’ayatollah Khalkhali, —surnommé le “juge pendeur”, car il a été l’exécuteur intraitable de l’élite militaire iranienne favorable au Shah déchu,— qui tentera, mais en vain, d’éradiquer le culte de Cyrus, en réclamant, avec une véhémence tenace, la destruction de son tombeau, des ruines de Persépolis et de toutes les traces de l’impérialité persane pré-islamique (les talibans détruiront, dans un même esprit, les Bouddhas de Bamiyan en Afghanistan). Les islamistes et les partisans de cette figure originale de la révolution iranienne, Ali Shariati, voulaient valoriser la figure de l’Imam Hossein, martyr au 7ième siècle de la foi chiite parce qu’il s’était opposé à la tyrannie illégitime des Ommeyades, apparentés au Calife Othman.

Impérialité perse, zoroastrisme et culte de la Lumière aurorale

Les partisans du Shah, en revanche, se réclamaient du passé “aryen” de la Perse, se démarquant du même coup de leurs voisins arabes (sémitiques) et turcs (ouralo-altaïques). Mohammad Reza Pehlavi, le dernier Shah, qui sera abandonné par ses “alliés” (?) américains, avait clairement renoué avec ce passé en faisant célébrer à grands frais, et de manière maladroite parce que trop dispendieuse, le 2500ième anniversaire de la fondation par Cyrus de l’impérialité perse. Dans ce contexte, il modifie d’autorité le calendrier musulman: l’année de la naissance de Cyrus remplaçant l’Hégire, la fuite de Mahomet de la Mecque à Médine. L’année 1976 devenant ainsi 2535, au lieu de 1355. Un idéologue paniraniste (le paniranisme veut la réunification légitime de la Perse et de l’Afghanistan), Shahrokh Meskoob, écrivait, peu après la révolution khomeyniste: “C’est surtout en deux choses que, nous, Iraniens, différons des autres musulmans: par l’histoire et par la langue. Ce sont ces deux facteurs qui nous ont induits à construire notre propre identité en tant que peuple et que nation. L’histoire a été notre valeur, elle a constitué les réserves pour nous permettre de suivre à chaque fois notre propre voie, et elle est aussi notre refuge. La langue a constitué le socle, le sol et le refuge de notre âme, un point d’appui sur lequel nous nous sommes toujours arc-boutés” (cité par Molavi, cf infra).

◊ Ensuite, la position par rapport au zoroastrisme. Si l’Iran est chiite, admettent la plupart des iranologues, c’est parce que son passé pré-islamique a été zoroastrien. Le chiisme traditionnel, du moins avant Khomeiny, gardait du zoroastrisme le culte du feu et de la lumière, notamment dans les écoles dites “illuminationistes” ou Eshraqi / Ishrâqî. Cette école date du renouveau iranien du 11ième siècle, est en cela typiquement perse, non arabe et non turque. L’idée centrale de cette “illuminationisme” perse est, in fine, un culte de la lumière, hérité du zoroastrisme, dont la manifestation tangible est une architecture religieuse et sacrée, laissant filtrer dans les mosquées ou les mausolées la lumière d’une manière particulièrement ravissante, provoquant des jeux de couleurs turquoise ou émeraude du plus bel effet. Des dieux du jour (et donc de la lumière et du soleil) indo-européens au culte de la Lumière du zoroastrisme, un filon millénaire conduit directement à ces poètes persans des 11ième et 12ième siècles, les Ishrâqîyûn ou adorateurs de l’ “illumination aurorale” ou des “princes célestes”, qui sont en fait les Intelligences illuminantes, dont les astres sont les symboles et les théurgies (oeuvres divines). A l’oeuvre, dans cet univers, un “Eros cosmogonique” porté par les “fidèles d’amour”. Dans les récits mystiques de Sohrawardi (12ième siècle), le Dieu des Dieux proclame: “Rien n’est plus vénérable pour moi que Bahman-Lumière (…) Célébrez en longues liturgies la race de Bahman-Lumière et les rois de la famille de Bahman-Lumière peuplant l’inviolable enceinte du Jabarût (soit le “monde des pures intelligences lumineuses et illuminantes, aurorales”)”. Implicitement, après le “Shahnameh” de Ferdowsi (cf. infra), Sohrawardi réclame, en utilisant le nom zorosastrien de “Bahman” (ou “Vohu Manah”), l’avènement d’un Ordre Royal de tradition persane où ceux qui sont issus de la race de Bahman-Lumière doivent s’organiser en une sodalité ésotérique, élitaire, en “templiers célestes”, sur le modèle de la chevalerie ouranienne pour répondre à l’appel de cette race et pour installer, selon son esprit, un Ordre aussi parfait que possible sur terre, brisant du même coup la solitude de l’homme égaré par ses affects et ses intérêts matériels et le sauvant de la déréliction humaine, tare constante, terrible et récurrente.

Renaissance iranienne au 11ième siècle: le “Shahnameh” de Firdowsi

◊ Dans cette renaissance iranienne du 11ième siècle, émerge également le “Livre des Rois”, le “Shahnameh”, dû à la plume du poète Ferdowsi. Ce dernier a véritablement sauvé la tradition perse de l’arabisation par l’islam. Ferdowsi n’est pas opposé à l’islam. Aucun texte de lui ne constitue une réfutation ou un rejet de l’islam. En revanche, il critique l’invasion seldjouk, danger pour l’identité perse. Ferdowsi était issu d’une famille iranienne du Nord-Est, de la région de Machhad où la mémoire des épopées persanes avait été conservée en dépit de l’islamisation. Né vers 941, il bénéficie du soutien du maître des lieux, Abou Mansour Tousi, qui gouverne le Khorassan pour le compte des Samanides de Boukhara. Afin de réhabiliter l’histoire perse, et donc la geste des rois de la “race de Bahman-Lumière”, les Samanides demandent à Ferdowsi de rédiger ce “Livre des Rois” en 957. Il reprend l’oeuvre laissée par Daqîqî, un poète perse qui avait été assassiné par un esclave turc, et inclut les 988 vers de son “Livre des Rois” dans son “Shahnameh”, auquel il travaille pendant plus de trente ans, jusqu’en 1010, avec le soutien continu des Samanides. La version définitive de cette épopée persane comptera entre 48.000 et 55.000 vers. Quand les Samanides quittent l’avant-scène politique de l’Islam et de l’Iran, Ferdowsi s’adresse à Mahmoud de Ghazni (cf supra), qu’il perçoit comme l’homme fort capable de redonner à l’Iran sa gloire et son lustre d’antan, de résister à l’arabisation et de constituer un rempart contre la menace turque-seldjouk qui pointe à la frontière. Mahmoud de Ghazni l’ignore et le méprise et Ferdowsi mourra abandonné et misérable. Les mollahs musulmans sunnites refusent qu’il soit enterré dans un cimetière religieux, sous prétexte qu’il est tout à la fois chiite et zoroastrien. Le premier Shah Pahlavi lui fera construire un mausolée en 1934, à l’occasion du millénaire de sa naissance. L’oeuvre de Ferdowsi, d’une beauté incomparable, sert de référence au paniranisme voulu par Reza Shah. Il atteste d’abord d’une continuité perse très ancienne, ensuite, d’une résistance iranienne à toutes les influences arabes et turques qui ont tenté de subjuguer le pays et d’en éradiquer la mémoire.

La poésie d’Omar Khayyam

Né vers 1045 dans le Nord-Est de l’Iran, comme Ferdowsi, Omar Khayyam est nommé astronome à la cours du grand vizir seldjouk Nizam al-Molk en 1073. Il calcule le temps avec plus de précision encore que ses homologues européens qui élaborent le nouveau calendrier grégorien. Savant versé dans toutes les disciplines de son époque, il connaît la pensée grecque et indienne, est plus que probablement influencé par une forme de soufisme qui récapitule plus ou moins secrètement, sous un masque islamique, le savoir des siècles et des millénaires antérieurs à la conversion forcée. Omar Khayyam est aussi poète: dans son “Robayyat”, il exprime, pour lui et quelques rares lecteurs initiés, une pensée peu bigote, où le scepticisme domine, assorti d’un rejet des dogmes figés, d’une ironie décapante, d’une misanthropie humoristique et d’un épicurisme affiché. Cette poésie sera redécouverte à Oxford au 19ième siècle par Edward Fitzgerald, qui avait consulté un exemplaire du “Robayyat” de 1461, conservé dans la bibliothèque de l’université britannique. La traduction de Fitzgerald fera connaître et aimer cette poésie persane à l’Europe toute entière. Au 14ième siècle, un autre poète persan, Hafez, réanime les mêmes thématiques poétiques: moqueries à l’égard des zélotes religieux, de la police de la foi. Il inspirera Goethe.

Conclusions:

◊ Notre première batterie de conclusions portera sur la nature réelle des antagonismes qui ont tissé l’histoire du “Grand Moyen-Orient”, que nous avons tenté, sommairement, d’esquisser ici. Généralement, on considère que trois sortes de facteurs sont en jeu: les facteurs religieux, les facteurs idéologiques et les facteurs ethniques. A la lumière de l’histoire iranienne, il ne semble pas que les facteurs religieux soient prépondérents. Le zoroastrisme, bien que réellement religieux et universel, c’est-à-dire transposable à d’autres peuples que les peuples aryens-iraniens, demeure constitutif de l’identité aryenne-iranienne, donc, par voie de conséquence, constitue davantage un facteur ethnique qu’un facteur proprement religieux. La volonté iranienne, surtout depuis les Séfévides, d’adopter le chiisme comme religion d’Empire, est certes un facteur religieux indéniable, mais, vu que ce chiisme est une volonté de se démarquer d’autres peuples, non indo-européens de souche, et vu qu’il véhicule sous un manteau chiite des linéaments religieux zoroastriens inspirés d’une mythologie persane indo-européenne et surtout pré-islamique, il procède forcément, lui aussi, du facteur ethnique iranien.

Les facteurs idéologiques habituels, basés sur les grands récits hégéliens et marxistes, nés en Europe et en Occident au début du 19ième siècle, n’ont guère eu d’impact dans la vaste région du “Grand Moyen-Orient” depuis l’entrée des troupes soviétiques en Afghanistan et la révolution islamiste iranienne de 1978. En effet, les idéologies, et plus particulièrement les fameux “grands récits”, définis par Jean-François Lyotard, se sont effondrés partout dans le monde, comme des châteaux de cartes, à commencer par le marxisme. Des bribes et des morceaux de ces récits ont survécu, ici ou ailleurs, mais travestis, réadaptés, relus, pimentés de mythes religieux ou nationaux (comme chez le théoricien chiite-marxisant Ali Shariati ou chez des révolutionnaires du “tiers monde”). Ces “grands récits” idéologiques ne peuvent donc pas être considérés comme des facteurs essentiels dans le “grand jeu” à l’oeuvre sur l’échiquier du “Grand Moyen-Orient”. Les acteurs locaux se mobilisent plutôt au nom de valeurs plus anciennes, plus fondamentales: celles que portent en germe les facteurs ethniques ou raciaux (n’ayons pas peur du mot). Les acteurs extérieurs, essentiellement les services américains, manipulent des conflits religieux, certes, mais qui recouvrent des antagonismes ethniques pluriséculaires. Il suffit de lire attentivement les documents anglo-saxons pour s’apercevoir que le raisonnement qui les produit n’est ni religieux ni idéologique, mais ethnique et politique. Ce qui offre une base d’action réellement concrète et laisse la manipulation vaine et illusoire de tous ces brics et brocs résiduaires des vieilles idéologies froides, artificielles et purement intellectuelles aux adversaires ou aux “alien audiences”, que sont les opinions publiques des pays alliés, qui ont pour seule tâche d’entériner, sans intervenir vraiment dans le jeu.

Facteurs raciaux: matrices turco-mongole, arabo-sémitique et indo-européenne

Lorsque l’on évoque les “facteurs ethniques ou raciaux” dans l’espace du “Grand Moyen-Orient”, il ne s’agit pas, évidemment, de définir, de retrouver ou de récréer une “race pure”, qu’elle soit iranienne, turque ou arabe. L’exercice serait vain, tant les brassages d’une histoire tumultueuse ont été fréquents et importants. De nombreux sultans d’origine turque ont adopté la vision iranienne/aryenne de l’histoire, ou plus tard, la vision russe. Lorsque nous évoquons ces “facteurs ethniques”, nous entendons de ce fait l’identification volontaire des acteurs de l’histoire ou des peuples à l’une des matrices ethniques fondamentales: la turco-mongole, l’arabo-sémitique et l’indo-européenne.

La matrice turco-mongle a son épicentre originel au nord de la Mandchourie. Les décideurs politiques qui inscrivent leurs actions dans cette tradition turco-mongole se perçoivent comme les avant-gardes d’un vaste mouvement originaire de cet épicentre, en quête de nouvelles terres à conquérir ou à annexer. Ainsi, le pantouranisme turc rêve d’un espace uni de l’Adriatique à la Muraille de Chine.

La matrice arabo-sémitique a son épicentre dans la péninsule arabique. D’après l’historien et cartographe britannique Colin McEvedy, elle procède d’un vaste conglomérat de tribus locutrices de langues “afro-asiatiques” qui s’est scindé, vers –4000, en quatre groupes, chacun disposant d’une “écosphère” propre: les Berbères du littoral nord-africain, les Egyptiens de la vallée du Nil, les Kouchites de la Corne de l’Afrique et les Arabo-Sémites de la péninsule arabique. Le nord de leur “Heimat” originelle s’est urbanisé en marge de l’Empire assyrien et a utilisé la langue araméenne. Le sud est resté isolé dans le désert arabique, devenant au fil des temps de plus en plus sec et aride. La civilisation du Yémen contient des éléments indubitablement indo-européens: architecture et alphabet. L’Islam a sorti les cultures arabo-sémitiques de leur isolement. Elles ont conquis leur environnement araméo-byzantin et perse, mais aussi égyptien et berbère. Ces peuples conquis ont résisté ou résistent toujours. On a vu comment l’esprit persan est revenu à l’avant-plan en Perse malgré l’arabisation, la turcisation et les conquêtes mongoles.

Dans les zones berbères, cette résistance existe également aujourd’hui en Algérie et au Maroc. Charles de Foucauld, récemment canonisé, était l’ami des Berbères Touaregs. Il a été assassiné par des bandes sénoussistes, oeuvrant pour le compte du Sultan d’Istanbul et de ses alliés allemands (les Sénoussistes ont effectué des raids en Egypte, au Darfour, au Tchad, en Libye et dans le désert du Sud algérien, tandis que certaines tribus montagnardes berbères de l’Atlas marocain se rebellaient, clouant au Maroc de nombreuses unités françaises). Détail piquant: les tribus sénoussistes, dont l’obédience est wahhabitique et intégriste, avaient été formées militairement par Atatürk, pour harceler les arrières italiens dans la guerre italo-turque de 1911-1912. Cette stratégie d’ “insurgency” sera reprise par Lawrence d’Arabie contre les Ottomans en Palestine et en Jordanie. Atatürk a donc armé, à son corps défendant et sur l’ordre de son état-major de l’époque, des intégristes islamistes, alors que sa vision personnelle était “indo-européenne”: il voulait identifier sa Turquie nouvelle à l’Empire hittite, indo-européen. Le monde afro-asiatique, et la matrice arabo-sémitique, ne peuvent donc être jugés comme les expressions d’un bloc uni, homogène, sauf quand il s’agit de faire face aux Perses ou à des puissances européennes plus récentes.

lundi, 18 mai 2009

Encerclement de l'Iran (3/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (3/6)

par Robert STEUCKERS

L’oeuvre stratégique de Trajan

De la mort de César en –44 à +138, les Perses se maintiennent à l’ouest dans la région d’Edesse, empêchant les Romains d’exercer un contrôle réel et définitif sur le Proche-Orient et leur barrant l’accès à la Mésopotamie et au Golfe Persique. Avec l’empereur Trajan [photo], la grande stratégie envisagée par César, à la veille de son assassinat, se concrétise: avec dix légions, Trajan s’empare du pays des Daces, dont il fait la seule province romaine au nord du Danube en +105. Comme la maîtrise du cours inférieur du Danube implique la maîtrise totale de l’Anatolie et de la Mer Noire et, qu’à son tour, cette maîtrise permet de contrôler les bassins du Tigre et de l’Euphrate, Trajan, bien conscient de ces réalités géopolitiques, poursuit son grand dessein: il transforme le pays des Nabatéens en une province d’Arabie, se dotant de la sorte d’une base arrière, pour réduire le saillant perse d’Edesse, s’emparer des hautes terres arméniennes et, dans la foulée, de débouler avec ses légions en Mésopotamie. Finalement, les Romains arrivent à Charax, sur les rives du Golfe Persique. Plus jamais une Europe impériale et unie n’y reviendra! Son successeur Hadrien estime, sans nul doute à juste titre car la puissance parthe n’est pas négligeable et le front est désormais trop long, qu’il est trop risqué de poursuivre l’aventure et de mettre ses pas dans ceux d’Alexandre. Il retire les légions de Mésopotamie, rend à l’Arménie son statut de royaume client, non inclus dans l’orbe romaine. Il affronte une révolte juive, celle de Simon-Bar-Kochba (+132 à +135), qui sème le trouble sur ses arrières et rompt les liaisons entre la Méditerranée et la Mésopotamie. Cette révolte coûte à Rome les effectifs d’une légion entière. Neuf légions sur un total de vingt-huit sont stationnées de la Mer Noire à l’Egypte face aux Parthes. Dix sont stationnées entre l’Autriche et l’embouchure du Danube, région où elles font face aux peuples cavaliers (indo-européens) des Roxolans et des Iazyges (qui formeront bientôt le noyau de la cavalerie romaine, modifiant ipso facto le caractère majoritairement fantassin de l’armée). Hadrien n’avait pas eu tort: sa politique purement défensive apporte à l’empire romain une paix de près de deux siècles, qu’on peut considérer comme son âge d’or.

Les Parthes ne profitent pas du départ des Romains pour reprendre l’Arménie et le saillant d’Edesse: à l’Est se forme un autre empire indo-européen et cavalier, celui des Kouchans, qui s’étend sur le Pakistan actuel, mais aussi sur l’arrière-pays de réserve des empires perses précédents: la Bactrie et la Transoxiane. Privé de cet espace de réserve, l’empire parthe entre en déclin, ce qui amène à nouveau les Perses du Roi Ardashir au pouvoir. L’empire cesse donc d’être parthe, pour redevenir perse, comme du temps des Achéménides. Dans ce contexte de transition du pouvoir, la donne géopolitique est la suivante: Ardashir contrôle certes le noyau antique de l’Empire perse, soit l’Iran actuel, mais les Rois d’Arménie sont de sang parthe et s’allient aux Romains contre le nouveau pouvoir. Cette décision barre la route à Ardashir, qui ne peut reprendre pied sur les hautes terres d’Arménie. Il tourne alors ses forces vers l’est, contre l’Empire kouchan. C’est un succès: les Perses contrôlent tous les territoires du Golfe à l’Indus, y compris la Bactrie et la Transoxiane, espaces de réserve indispensables à assurer la puissance perse sur ses arrières. Mieux: Ardashir traverse le Golfe et place Bahrein sous suzeraineté perse. Deux options géostratégiques de l’ “iranité éternelle” venaient de se traduire dans le réel: le contrôle de l’arrière-pays steppique et la rive opposée du Golfe.

La poussée germanique vers le Danube

Au nord du Danube, les Goths, partis de Suède, ont conquis le bassin de la Vistule, traversé les marais du Pripet et se massent dans la vallée du Dniestr, en Moldavie et en Ukraine actuelles. Ils sont désormais sur la Mer Noire, à hauteur d’Odessa. Ils repoussent les Roxolans vers le Dniepr et le Don. D’autres Germains, les Vandales, partis de Silésie, poussent à travers la Bohème, arrivent dans le nord de la Hongrie actuelle et coincent les Iazyges cavaliers dans la vallée de la Tisza (Theiss). Les Germains de l’Est sont plus menaçants pour Rome que ne l’avaient jamais été les Roxolans et les Iazyges, avec lesquels ils avaient composé. Cette première poussée germanique, bien organisée, oblige les Romains à abandonner deux positions stratégiques importantes: les Champs Décumates entre le Rhin et le Danube, laissés aux Alamans, et la Dacie, si chèrement acquise sous Trajan, aux Gépides, Vandales Asding et Wisigoths. Mais sur le front perse, Rome se maintient, grâce aux légions de Galérien. L’Arménie est toujours cliente de Rome, le saillant d’Edesse sous le contrôle des légions, de même que la moitié nord de la Mésopotamie. Quant aux Perses, ils sont maîtres de tout l’Iran actuel, plus de l’Azerbaïdjan, des régions steppiques au Nord de l’Iran, zone de rassemblement depuis la proto-histoire des peuples cavaliers indo-européens —qui, toujours, fonderont ou redonneront vigueur à l’impérialité perse-parthe,— et de la moitié occidentale du Pakistan actuel, dont la quasi totalité du Béloutchistan.

Les deux empires semblent immuables, résister à leurs périphéries, moyennant des affrontements mineurs. Cependant, à la fin du règne de Julien, qui part contre les Perses avec ses légions gauloises et germaniques, les Huns, partis des flancs de l’Altaï en Sibérie centrale, ont avancé leurs hordes et leurs troupeaux vers la Mer d’Aral: à l’ouest, ils avancent vers la Volga qu’ils atteignent vers +350; à l’Est, ils conquièrent la Bactrie et la Transoxiane, mettant définitivement fin à l’indo-européanité centre-asiatique; depuis lors en effet, cette Asie centrale, indo-européenne depuis la culture proto-historique de Jamnaïa, est devenue turco-mongole, hunnique; elle ne sera jamais plus un espace de réserve pour les empires sédentaires du “rimland”, tous issus de peuples guides indo-européens. Toutes les potentialités démographiques indo-européennes d’Asie centrale altaïque sont, à un moment ou à un autre de la proto-histoire ou de l’histoire antique, rentrés dans l’espace iranien pour y consolider un ordre impérial; désormais, ces potentialités n’existent plus.

La fin lamentable de l’Empire romain d’Occident

Sur l’embouchure de la Volga dans la Caspienne, les Huns font face à un peuple cavalier indo-européen, les Alains, et, à hauteur de la boucle du Don, à proximité de la Volga, ils sont les voisins des Ostrogoths germaniques, dirigés par leur roi Ermanarich, qui s’est rendu maître de la Crimée (les descendants des Ostrogoths s’y maintiendront jusqu’au 17ième siècle!). Les Ostrogoths sont les premiers, avant les Romains et les Perses, à percevoir le danger hunnique: en +372, ils avancent leur cavalerie en direction de la Volga pour affronter la présence étrangère hunnique, mais ils sont écrasés par la tactique avérée des Huns: volées de flèches, décrochages rapides, retour des archers montés, nouvelle volée de flèches, nouveau décrochage, jusqu’à l’épuisement de l’adversaire. Boucliers de l’Europe lors de ce premier assaut hunnique, les Goths, bousculés et vaincus, en seront aussi les premiers martyrs. Leur défaite scelle le sort de l’Europe: les Huns, que plus aucune force militaire digne de ce nom ne peut arrêter, poussent jusqu’à la puszta hongroise, idéale pour l’élevage de leurs chevaux. Ils colonisent cette plaine en soumettant les Gépides. Les peuples germaniques sont repoussés, chassés des rives de la Mer Noire et des terres noires d’Ukraine: ils entrent dans l’Empire romain et finissent par en prendre le contrôle, d’autant plus que le meilleur général romain de l’époque, Stilicon, est un Vandale qui sait composer avec ses compatriotes. En 408, l’empereur Honorius, méfiant, le fait assassiner: mauvais calcul, absence de clairvoyance, mesquinerie de dégénéré, car plus aucun militaire de valeur n’est à même de défendre l’Italie. Alaric, chef des Wisigoths, va venger Stilicon et piller Rome. Honorius se replie à Ravenne et assiste, indifférent, au spectacle. Athaulf, successeur d’Alaric, souhaite une paix définitive avec Rome, mais l’empereur, décadent, irresponsable, incapable de défendre les citoyens de Rome, refuse tout compromis. S’il avait accepté les propositions honnêtes d’Athaulf, l’Empire d’Occident aurait été aussitôt restauré, sous l’impulsion des Wisigoths, pour faire face au second assaut des Huns.

Attila, les Turcs et les Avars

Après le choc entre Goths et Romains, les Huns de Hongrie se donnent pour roi Attila, qui conserve ses puissants alliés germaniques, les Ostrogoths et les Gépides. Attila avance ses troupes jusqu’à Orléans, le point le plus à l’Ouest qu’aient jamais atteint des conquérants venus de l’Altaï. Aetius, dernier général romain de l’Ouest, perdu au milieu des nouveaux royaumes germaniques constitués sur l’ancien Empire romain, parvient à s’allier aux Wisigoths, qui formeront le gros des troupes, aux Burgondes et aux Francs pour faire face à la menace: Attila est battu aux Champs catalauniques en +451 et reflue en Hongrie. Il y meurt l’année suivante. Son empire est partagé entre ses fils, très nombreux. Face à l’anarchie qui s’ensuit, les Germains se révoltent et écrasent les Huns en +454 en Hongrie (Bataille de Nedao, site inconnu). L’Empire romain sort exsangue et démembré de l’aventure, tandis que l’Empire perse, maître des zones les plus importantes de la Transoxiane et de la Bactrie, était parvenu à résister. Mais, le danger ne disparaît pas pour autant: il se transpose à l’est, où les Huns Blancs, qui n’osent affronter les Perses, annihilent l’empire kouchan vers +440, portant l’ennemi potentiel sur l’ensemble de la frontière orientale de l’orbe perse. En +484, l’empereur perse est tué à la tête de son armée, mais les Huns Blancs préfèrent jeter leur dévolu sur l’Inde. La situation changera au siècle suivant: les premiers Turcs à arriver aux portes des empires du “rimland” battent préalablement les Mongols jouan-jouan en +552, qui se réfugient chez les Huns Blancs en Transoxiane. Les Turcs battent les Huns Blancs en +557. Les Perses profitent de l’occasion pour réoccuper la Transoxiane, et se redonner ainsi le territoire qui a toujours été leur habituelle “bouffée d’oxygène”. Après cela, les Turcs restent cois. Mais les débris des Huns Blancs et des Jouan-Jouans se portent vers l’Ukraine et, de là, vers la Hongrie, où nos ancêtres les connaîtront sous le nom d’Avars. Ils affronteront les Francs en Thuringe (+562), qui leur barreront la route de l’ouest. Mais les Avars reproduisent la stratégie des raids tous azimuts d’Attila, frappant au hasard, où on les attend le moins. Les Byzantins les utiliseront, comme mercenaires ou comme alliés de revers, pour mater les Slaves, mais devront leur payer un tribut énorme, empêchant la Rome d’Orient, par la suite, de mobiliser les moyens financiers nécessaires pour battre définitivement les Perses d’abord, pour faire face ensuite aux Arabes, successeurs de Mahomet.

Des Samanides à Mahmoud de Ghazni

La Perse, après les Sassanides, servira de lieu de passage, d’espace de transit pour les tribus turques et hunniques en marche vers le Sud et l’Ouest. Elle n’a plus une réserve indo-européenne semi-nomade et semi-sédentaire, cavalière et guerrière, au-delà de la Transoxiane et de la Bactrie. Les vagues migrantes qui arrivent n’apportent pas un renouveau de souche européenne, mais de la nouveauté non persane, non assimilable à la persité antique. Toutefois, cette spécificité perse ne disparaît pas pour autant: malgré les coups durs encaissés, c’est une dynastie iranienne du Khorassan, les Samanides, qui règne de 819 à 1005. Une autre domine à l’Ouest de l’Iran actuel, les Bouyyides, de 934 à 1055. Les Samanides s’affirment dans la région au sud de la Mer d’Aral, dans le triangle formé par trois villes prestigieuses: Samarkand, Boukhara et Merv. Descendants d’un ancêtre appelé Saman Khudat, les représentants de cette famille islamisée ne sont que vice-rois des califes dans la région: ils se débarrassent, de manière subtile, de leurs maîtres arabes pour établir une culture propre, certes musulmane mais persane et non arabe. Au cours des premiers siècles de la domination arabe, le rejet de l’arabité par les Iraniens sera constant: d’abord, les conversions ont été lentes (il a fallu plus de quatre siècles!), ensuite, la base zoroastrienne de leur religion les induit à choisir généralement des voies chiites, contestatrices des pouvoirs dominants sunnites chez les Arabes, tout simplement parce que le zoroastrisme, puis les doctrines de Mani et de Mazdak, s’opposent aux pouvoirs sclérosés et aux répétitions rituelles stériles.

Les trois villes, qui forment les piliers du pouvoir samanide, sont des centres caravaniers, des foyers de commerce et de culture. Boukhara comptait près de 300.000 habitants. Dans la bibliothèque royale s’accumulaient 45.000 volumes. Un syncrétisme religieux et philosophique y émergeait, favorisé par les contacts entre Arabes et Persans, entre Européens du Nord et marchands chinois, entre Musulmans, Nestoriens et Bouddhistes. Les Samanides, sous la pression des Bouyyides, finissent par perdre le contrôle des mines d’argent de la région, source matérielle de leur pouvoir. Les tribus turques d’Asie centrale lorgnent sur les richesses des villes samanides, qui tombent en déliquescence et ne possèdent plus leur puissance d’antan. Après d’innombrables péripéties, changements d’alliances, trahisons et querelles intestines, les Turcs entrent dans Boukhara le 23 octobre 999.

Une date clef : la chute de Boukhara

Pour l’historien britannique John Man, “la chute de Boukhara en 999 doit être considérée comme le premier épisode d’une crise générale”, qui amènera les Turcs en Anatolie, déclenchera les croisades européennes un siècle plus tard, débouchera sur la prise de Constantinople en 1453 et générera, après les innombrables avatars de l’histoire, le problème des Balkans, toujours irrésolu. Pour éviter un raz-de-marée turc sur le reste de l’Iran, Mahmoud de Ghazni, un Perse, se soumet formellement au calife de Bagdad. Les Turcs n’occupent encore que l’espace clef d’Asie centrale, le triangle urbain de Boukhara, Samarkand et Merv. Mahmoud de Ghazni, fort de l’alliance qui le lie au calife, veut recréer, manu militari, l’empire d’Alexandre et celui des gupta, sous sa rude férule. Il envahit l’Inde, réussit un exploit militaire extraordinaire pour l’époque: la traversée du désert de Thar pour prendre la ville de Somath sur les rives de l’Océan Indien. L’objectif géopolitique de Mahmoud de Ghazni était de créer un barrage d’empires islamisés, de la Méditerranée à l’Inde, pour barrer la route aux Turcs d’Asie centrale, non encore convertis. Mais le pillage systématique des villes indiennes et des lieux de culte hindous, qu’il a pratiqué pour obtenir des fonds, le rendra odieux aux Indiens, qui le considèrent comme le premier envahisseur musulman décidé à détruire les bases de l’hindouisme. Sa rudesse est bel et bien à l’origine du conflit indo-musulman actuel. A sa mort en 1030, son empire, dirigé par ses héritiers, s’étend provisoirement jusqu’à Bénarès (prise en 1033), puis s’écroule. Les Turcs écrasent l’armée de son fils et amorcent, vers 1037, leur longue marche vers l’ouest, qui conduira à la bataille de Manzikert en 1071, contre les Byzantins, puis aux Croisades. A l’Est, ils prendront l’Inde en 1206, sous la conduite d’Aîbek.

Les Séfévides, alliés de revers du Saint-Empire et de l’Espagne

L’Iran ne retrouvera une identité politique propre qu’avec l’avènement des Séfévides en 1501. De 1037 à 1500, effectivement, l’Iran est sous la coupe de chefs turcs ou mongols. Au 15ième siècle toutefois, le déclin mongol permet le réveil de trois puissances: la Lithuanie, la Moscovie et l’ordre religieux soufi des Séfévides. Les Lithuaniens repoussent les Mongols et arrivent sur la Mer Noire. La Moscovie se structure au nord et passera à l’attaque au siècle suivant. Sur les marches turcomanes de l’Iran, un ordre soufi se crée sous la houlette du Cheikh Safi’uddin Ardébili en 1301. Celui-ci adhèrera pleinement à ce complexe religieux soufi-chiite au cours du 14ième siècle. En 1447, six ans avant la chute de Constantinople, le Cheikh Junayd et son fils Heydar imposent une réforme à l’ordre: celui-ci prend un aspect militaire et vise le pouvoir politique. Les tribus turcomanes de la région sont organisées selon de telles règles mystiques et militaires. On les appelle les “Qizilbash” ou “chapeaux rouges”: ils seront entièrement dévoués aux Séfévides.

En 1487, Shah Ismaël succède à son père Heydar, qui avait épousé Marie, la petite-fille d’Alexius IV, empereur de Byzance. L’origine de son épouse lui dicte une hostilité aux Ottomans. Du coup, les puissances européennes traditionnelles cherchent à faire de lui l’allié de revers contre les Ottomans, comme François I était l’allié de revers des Ottomans contre le Saint-Empire et l’Espagne. Shah Ismaël s’assure dans un premier temps la bienveillance, voire l’alliance, des tribus turcomanes de la périphérie septentrionale de l’Iran (sauf les Ouzbeks), conquiert ensuite Diyarbakir en 1508, puis envahit la Mésopotamie. La défaite des Ouzbeks au nord ne lui permet cependant pas de conserver l’espace de la Transoxiane dans la sphère d’influence iranienne, ce qui constitue, comme toujours, un sérieux handicap sur le long terme. Les Ouzbeks sont de fait les alliés de revers des Ottomans. La situation stratégique du début du 16ième siècle est donc la suivante: Espagne, Saint-Empire, Iran contre France, Ottomans et Ouzbeks. L’alliance franco-ottomane ne se fera que dans les années 20 du 16ième siècle, mais, de fait, la volonté de Louis XII, puis de François I, de sortir du cadre légitime de la Francie occidentale (selon le Traité de Verdun de 843) qui s’était déjà emparé antérieurement de la Burgondie rhodanienne, de se rendre maître de la plaine padane pour débouler dans l’Adriatique, sont autant de démarches trahissant une foncière inimitié à l’endroit de l’Espagne et de l’Empire, qui sont, à l’époque, sous la souveraineté commune du jeune Charles-Quint.

Heurs et malheurs des Séfévides

Les Ottomans ripostent et envahissent l’Iran en 1514. L’armée de Shah Ismaël est écrasée. L’expansion ottomane au Proche et au Moyen-Orient commence: Soliman le Magnifique s’empare de Bagdad en 1534. L’Iran séfévide perd définitivement l’Irak. Il faudra attendre l’avènement du Shah Abbas I (1588-1629) pour stabiliser à nouveau l’Iran séfévide, en faire un bloc inexpugnable, regroupant le Caucase, l’Iran et une bonne partie de l’Afghanistan actuel. Abbas I a réussi à consolider ses frontières occidentales, mais sans récupérer la Mésopotamie et le Kurdistan actuel. En 1639, les hostilités entre Ottomans sunnites et Perses chiites cessent durablement: la frontière occidentale de l’Iran restera, grosso modo, la même que celle que nous connaissons aujourd’hui. Au 18ième siècle, Nader Shah Afshar (1729-1747) tenta une nouvelle fois, sans succès, de reconquérir la Mésopotamie, soulageant par ses efforts les Européens, qui purent ainsi consolider les conquêtes d’Eugène de Savoie dans les Balkans et celles de Catherine II sur le pourtour de la Mer Noire. Nader Shah Afshar s’opposa toutefois victorieusement à la Russie dans le Caucase. Il réussit à envahir l’Afghanistan et l’Inde, à prendre Dehli, capitale des Moghols. Ses efforts en Transoxiane furent vains, ce qui n’est pas sans conséquences: l’histoire nous enseigne qu’un Iran qui ne domine pas la Transoxiane demeure faible et menacé. L’épopée guerrière de Nader Shah Afshar se fit au détriment de l’organisation intérieure de l’Empire, comme du temps de Mahmoud de Ghazni: ses conquêtes furent perdues après sa mort. Plus tard, Karim Khan Zand prend Bassorah aux Ottomans, ce qui permet à la Perse de développer son commerce avec l’Inde. Cette victoire montre l’importance stratégique primordiale de ce port au sud de la Mésopotamie.

Au 19ième siècle, la dynastie des Qadjars, turcomane d’origine, affronte la Russie qui, forte de ses victoires contre les Ottomans, a progressé dans le Caucase et commence à grignoter les territoires iraniens. La Russie est désormais maîtresse de la Caspienne. L’Iran, sous la conduite de Fath’Ali Shah, tente de reprendre pied en Afghanistan en conquérant Hérat en 1837: les Anglais font alors pression sur le Shah pour qu’il retire ses troupes. Au même moment, comme par hasard, une révolte religieuse, celle des Bâbis, plonge l’Iran dans une guerre civile. Les Babistes luttaient contre le clergé chiite, jugé trop rétrograde, et militaient pour un assouplissement général des règles islamiques de la vie quotidienne. Réprimé durement, le mouvement continue toutefois à agir dans la clandestinité et travaillera à la chute des Qadjars, en soutenant le mouvement constitutionaliste de la première décennie du 20ième siècle, qui a reçu un certain soutien britannique, retiré prestement, dès que les nécessités stratégiques de l’Entente avec la France et la Russie obligeaient Londres à ménager Pétersbourg pour concentrer tous les efforts contre l’adversaire allemand. La Russie s’opposait au constitutionalisme, craignant la contagion, et préférait soutenir le Shah et le clergé hostile à toute réforme socio-religieuse. En 1857, immédiatement après la Guerre de Crimée, le Shah Nasser ed-Din tente une nouvelle fois de reprendre Hérat; les Anglais, qui n’acceptent pas et n’accepteront jamais cette expansion iranienne vers l’est, débarquent dans le Sud. Russes et Anglais finissent par se partager des zones d’influence dans le pays, le réduisant, non pas au statut d’une colonie, mais d’une zone sans indépendance réelle. Le pouvoir des Qadjars au 19ième siècle est l’histoire d’un lent déclin de la Perse.

dimanche, 17 mai 2009

Ambitieuse Turquie, myopie de la Vieille Europe

Ambitieuse Turquie, myopie de la vieille Europe

090513Ex: http://www.insolent.fr/
Beaucoup de choses changent, en Anatolie comme ailleurs. La seule qui ne se modifie pas ressemble fort, en Europe, à de l'aveuglement. Et il ne faut certes guère trop compter sur la campagne des élections dites européennes. Elle n'avivera guère, je le crains, la prise de conscience des citoyens. Quant aux problèmes associés à l'élargissement on ne les regardera que par le petit bout de la lorgnette. La négociation menée depuis 2004 entre Bruxelles et Ankara demeurera subreptice, sur des bases faussées.

Osons cependant entreprendre ici de corriger quelques illusions d'optique.

Rien de plus faux, d'abord rien de plus contraire à l'Histoire, rien de plus trompeur pour l'avenir que l'idée romantique de "la vieille Turquie immobile." Propagée par Pierre Loti, elle ne correspond qu'aux fantasmes surannés du personnage. Mais elle continue ses ravages.

Ce peuple de la steppe est venu d'Asie centrale au XIe siècle. S'il avait correspondu en quoi que ce soit aux rêveries des orientalistes, le pays qui porte son nom n'existerait même pas.

Aujourd'hui animé d'une grande énergie, bouillonnant de ses contradictions et de son dynamisme vital, il se pousse à nouveau sur la scène mondiale.

Occupant dès maintenant une place géostratégique décisive, poussant son économie vers l'avenir, il cherche aussi l'agrandissement de son espace vital.

L'Union européenne, quant à elle, formatée en 1991 par le traité de Maastricht, déformée par le traité signé à Nice en 2001, n'en finit pas de ne pas se doter d'une véritable politique extérieure. Cela vaut peut-être mieux, penseront d'ailleurs certains, tant que le président de la commission de Bruxelles, actuellement M. Barroso, et tant que la majorité du parlement de Strasbourg persisteront à raisonner et à agir, au rebours des intérêts, et surtout de l'âme de notre Vieux Continent.

Telle une certaine fusée expérimentale détournée par une puissance mauvaise, et que le professeur Tournesol préféra détruire plutôt que de la perdre, je sais que certains croient sauver l'Europe en lui retirant ses institutions. J'espère qu'on pardonnera quand même à ceux qui souhaitent encore donner une dernière chance à la raison.

Personne ou presque n'ose s'insurger contre la manière péremptoire dont les évolutions nous sont présentées. On voudrait bien pourtant pouvoir renvoyer dos-à-dos les docteurs Tant-Pis du souverainisme comme leurs confrères Tant-Mieux de l'eurocratie. Les choix binaires et caricaturaux proposés aux citoyens, moins sots que l'imaginent les communicants, ne sauraient être tenus pour étrangers à l'indifférence que suscite à ce jour la campagne actuelle.

Néanmoins, sans illusion pour l'immédiat, m'adressant à une partie plus éclairée, plus rare aussi, de l'opinion, je voudrais souligner l'évolution de la politique régionale d'Ankara depuis le début de l'année 2009.

Cet hiver, en février, un nouveau secrétaire d'État chargé des relations avec l'Europe est apparu. Ce négociateur s'appelle M. Egemen Bagis. On ne peut pas considérer comme positive l'évolution qui en est résultée si j'en juge par l'évaluation d'un grand quotidien du soir, habituellement moins sévère pour ce pays :
"méthode" d'Ankara pour adhérer à l'Union européenne crée le malaise à Bruxelles
Au-delà de la polémique sur la nomination de M. Rasmussen,
"c'est la méthode suivie par Ankara qui pose problème"
, souligne un diplomate bruxellois. S'incarnant en porte-parole des pays musulmans, ce qui a aussi fortement déplu, M. Erdogan a relancé les interrogations quant à la volonté réelle de son pays de respecter la liberté d'expression, l'une des exigences les plus fortes des négociateurs européens.
"Très choqué" par la pratique de la Turquie et son évolution vers ce qu'il a appelé "une religion plus renforcée, une laïcité moins affirmée", Bernard Kouchner a, quant à lui, saisi l'occasion pour affirmer, mardi 7 avril, qu'il n'était plus favorable, désormais, à l'entrée de la Turquie dans l'Union européenne.
La
Et, début mai, on apprenait la nomination d'un nouveau ministre des Affaires étrangères en la personne de M. Davutoglu, qui en réalité a toujours conseillé la politique de MM. Erdogan et Gül.

Deux mots sur ce nouvel interlocuteur. Pour la première fois dans ce pays, il ne s'agit pas d'un parlementaire du parti au pouvoir, mais d'un professeur de Relations internationales. Or la ligne qu'il représente risque fort d'étonner tous ceux qui imaginent à la fois une Turquie aspirant avant tout à une intégration européenne et, en même temps, une sorte de barrière contre les divers courants de l'islamisme proche-oriental.

Puissance régionale, aspirant à jouer un rôle mondial, la république fondée par Mustapha Kemal a cessé de se penser elle-même comme une sorte de pré carré inviolable, protégée contre elle-même par son armée laïque, gardant jalousement des frontières définitives. Il va falloir désapprendre les images fortes, convaincantes, mais hélas fausses, propagées par Benoist-Méchin.

En 2004 par exemple, pour complaire à la commission de Bruxelles, une révision constitutionnelle majeure liquidait la conception théoriquement nationaliste de la supériorité du droit interne. En même temps, symboliquement, la peine de mort était abolie. Donc désormais, quand ce qu'on appelle "l'État profond" voudra se débarrasser d'un gêneur, d'un journaliste arménien ou d'un contestataire quelconque il devra renoncer aux méthodes judiciaires. Il lui restera le recours de l'assassinat. Le scandale momentané sera suivi d'une enquête stérile, d'un procès truqué, et enfin d'un jugement débonnaire quand les exécuteurs auront bien voulu se livrer à la police. Jusqu'ici ça ne marche pas trop mal, dans cet excellent pays, où l'on attache plus d'importance à la cuisine qu'à la philosophie, je veux dire à la pratique plutôt qu'aux grandes idées abstraites.

Ankara peut donc avancer sereinement, et impunément sur la voie de son projet multidirectionnel.

Nommé officiellement le 1er mai Ahmet Davutoglu, 50 ans, se verrait, nous assure-t-on, accusé par ses adversaires de "néo-ottomanisme".

Cette expression, citée par "Libération" (2) ne veut strictement rien dire.

Ou plutôt elle peut recouvrir des concepts tout à fait contradictoires.

"L'ottomanisme" historique domina l'évolution de l'Empire au cours du XIXe siècle. Cela fonctionna à partir des années 1830- 1839 ("Tanzimat" réformateur), puis 1856 (égalité complète des citoyens vis-à-vis du service militaire). Et cela dura jusqu'à la catastrophique révolution jeune-turque de 1908-1909. Cette évolution eût conduit à un résultat sans doute préférable à ce que fabriquèrent le sinistre Enver pacha, jusqu'en 1918, puis Mustapha Kemal.

Parler de "néo-ottomanisme" permet de ne pas comprendre.

En fait la "doctrine Erdogan" consiste à dire par la bouche de M. Davutoglu de façon très réaliste :
"la Turquie ne peut pas privilégier ses liens avec l’Orient ou avec l’Occident car les deux sont indissolublement liés".
Si l'Europe disposait d'une véritable politique extérieure commune, elle mettrait un terme aux négociations d'adhésion. Elle proposerait l'alternative dite "franco-allemande", celle d'un partenariat. Et elle le ferait sur le simple constat de cette évidence : dès lors qu'elle ne "privilégie pas ses liens avec [ce qu'elle considère comme] l'occident" elle ne cherche pas à appartenir pleinement à notre famille de nations "occidentales".

Que le caractère "multidirectionnel" de son projet dépasse, certes, comme celui de l'hitlérisme défini dès les années 1920, ses capacités propres, ne l'empêchera pas de nuire. Dans les années 1980 la junte militaire avait inventé Turgut Özal. Premier ministre (1983-1989) puis président de la république civil (1989-1993), il déposa auprès de l'Union européenne la candidature d'Ankara. Or il donnait déjà du monde turc une définition très large "de l'Adriatique à la muraille de Chine".

Nous ne nous trouvons donc pas dans une situation de véritable innovation doctrinale, due à on ne sait quelle bouffée d'islamisme mystique. Les confréries auxquelles se rattachent, aussi bien aujourd'hui MM. Erdogan et Gül que M. Özal hier, n'ont jamais pensé autre chose. Je développerai bientôt ce point particulier. Ahmet Davotuglu n'en donnera sans doute que la version savante et diplomatique.

Et pour bien comprendre les choix que la Turquie devrait et pourrait opérer, on peut citer plusieurs potentialités.

1° la plus déstabilisante pour le proche orient vise les pétroles du nord de l'Irak. Elle prétend s'appuyer sur les droits de la minorité turkmène dans la ville de "Kirkouk à moitié kurde" (3). Sans le vote de mars 2003 du parlement d'Ankara, qui ne permit pas alors, faute d'une majorité suffisante, l'envoi d'un premier contingent de 62 000 hommes aux côtés des Anglo-Américains, nous pourrions en observer le scénario.

2° la plus classique pour les stratèges conservateurs consiste à intervenir pour "maintenir l'ordre dans le Kurdistan irakien" en frappant une fois de plus dans la zone montagneuse où se réfugient les rebelles marxistes-léninistes du PKK, mais aussi en satellisant les "Kurdes modérés" installés au pouvoir.

3° la plus extravagante mais aussi la plus inquiétante pour le gouvernement chinois, qui la prend très au sérieux, consiste à encadrer la contestation des Ouïgours du Sin-kiang, supposés de race turque et de religion mahométane.

4° la plus illusoire vise les anciennes républiques dites "musulmanes" détachées de l'Union soviétique en 1991. Elle permettrait de réunir l'Anatolie au "Turkestan" chinois via l'ancien "Turkestan" russe. Ce programme "panturquiste", après avoir beaucoup intéressé les Allemands à partir de 1941 (4) a séduit, semble-t-il, un certain nombre d'hommes d'affaires occidentaux. Au début des années 1990, les Ouzbeks, Kazakhs, Kirghiz, Turkmènes et Azéris (5) ont vu avec plaisir arriver des cousins très lointains. Ces gens aimables leur parlaient un idiome forgé par Kemal sous le nom de langue "soleil", voisin des leurs. De plus ils semblaient susceptibles de compter en dollars. Mais tout le monde est revenu sur terre, et le projet a depuis tourné court. Le plus important pays de la région, l'Ouzbékistan fait accessoirement figure de principal opposant à cette "grande idée".

5° la plus immédiate, celle qui préoccupe Israël, consiste à se présenter comme le porte-parole des pays musulmans du proche orient et à prendre en main le projet d'un État palestinien, en mettant en place un accord avec la Syrie, etc. Freinée par le gouvernement Bush, cette démarche semble prendre de la crédibilité avec la présidence d'Obama.

6° la plus dangereuse pour l'Europe, la seule qui la concerne directement, vise une expansion rêvée dans les Balkans, en direction de l'Adriatique, vers l'ensemble des territoires que l'on appelait autrefois "Roumélie". Le secrétaire général de l'Organisation de la Conférence islamique, le Turc Ekmeleddin Ihsanoglu est parvenu, lors la XIe réunion des 57 pays musulmans qui s'est tenu à Dakar en 2008, à faire insérer une résolution se solidarisant et appelant explicitement à une intervention en vue de protéger les coreligionnaires opprimés dans les Balkans et en citant la Thrace occidentale et la Bulgarie. Dans les années 1990 on a appelé cela la flèche verte. Elle vise en fait l'ensemble des pays du sud-est européen.

Pour toutes ces raisons et pour quelques autres je juge, quant à moi, fort périlleux pour ne pas dire inconvenant d'imaginer l'adhésion de la Turquie à l'Union européenne.

 

Apostilles

  1. cf. Le Monde édition du 11 avril 2009
  2. cf. Libération du 5 mai.
  3. cf. Le livre de Amanj al-Barzanji "Kirkouk à moitié kurde" Cairn 2007
  4. Date où ils mirent un terme à leur alliance avec Staline. Un rapport secret de 1943 rédigé par l'ambassadeur du Reich Von Papen, et publié après la guerre, démontrait l'absurdité de ce projet. En 1944 un jeune officier pro-nazi Alpaslan Turkes fut emprisonné pour y avoir imprudemment adhéré. Plus tard il fondera, et dirigera jusqu'à sa mort, le parti des Loups gris "MHP" qui représente environ 15 % du corps électoral, qui a plusieurs fois participé au gouvernement et siège actuellement au parlement sur la base de cette doctrine inchangée.
  5. Le Tadjikistan appartient, lui, du point de vue linguistique, à la sphère iranienne.
JG Malliarakis

Encerclement de l'Iran (2/6)

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L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (2/6)

par Robert STEUCKERS

Fin de l’unité seldjoukide et avancées européennes

L’unité seldjoukide s’effondre: trois sultanats se partagent, après les coups portés par les Croisés, l’héritage d’Alp Arslan. Mais le flot démographique turc continue à se déverser via l’Iran vers l’Anatolie et le Moyen-Orient arabe. Le Sultan seldjouk Sanjar de Merv ne parvient pas à canaliser ce flot ininterrompu qui consolide parfois les sultanats turcs établis mais y introduit tout aussi souvent le désordre: une tare du nomadisme. La Perse, dans ce contexte, est devenue le sultanat seldjouk d’Hamadan. Elle est un espace de transit pour les nomades et leurs troupeaux qui suivent leurs guerriers victorieux. Les croisades, qui ne sont pas vraiment un succès militaire sur le long terme, permettent toutefois, par la pression constante qu’elles exercent, aux royaumes ibériques de libérer une très vaste partie de la péninsule hispanique, à la Géorgie de se dégager de la tutelle seldjouk, aux Russes de Novgorod et de Souzdal de tenir tête aux Coumans, aux Byzantins de reprendre pied dans les Balkans.

L’affrontement a été lourd face aux Seldjouks. L’histoire des croisades nous montre que les Croisés “latins” et les Arméniens “grecs” feront cause commune, en dépit du contentieux entre Rome et Byzance, sanctionné par le schisme de 1054. Quand les Croisés doivent plier devant le général kurde Saladin, le conflit demeure chevaleresque, tout simplement parce que Saladin est un indo-européen, ni turc ni arabe. De là, la littérature épique et courtoise de notre moyen-âge, où Feirefiz, le chevalier perse ou kurde est l’ami de Parzifal, son homologue allemand, dans l’épopée de Wolfram von Eschenbach. Aucune fraternité de ce type n’est attestée dans la littérature épique espagnole, où Européens affrontent Berbères et Arabes, ni dans une oeuvre antérieure à l’affrontement avec les soldats de Saladin ou ceux de ces successeurs.

L’académicien René Grousset, spécialiste de l’Asie centrale, dans son livre L’épopée des Croisades, restitue clairement la situation: l’Empereur germanique Frédéric II Hohenstaufen admire, non pas tant l’islam en tant que religion, mais la science arabo-perse, capable de structurer durablement un empire. Frédéric n’a donc pas les aprioris habituels des chrétiens occidentaux contre l’islam ou les civilisations antérieures qu’il recouvre de son vernis. Les successeurs de Saladin le Kurde, eux, raisonnent en termes géopolitiques. Son empire, qui comprend alors l’Egypte, la Syrie-Palestine et la Mésopotamie, est administré par ses trois neveux, chacun sultan de l’une de ces provinces. El-Mouazzam, sultan de Syrie-Palestine à Damas, entre en conflit avec son frère aîné, El-Kâmil, sultan d’Egypte. Pour vider la querelle, El-Mouazzam fait appel à des nomades turcs commandés par Djélal ed-Dîn Mangouberdi, chassé du Khwarezm (Nord-Est de l’Iran actuel) par les Mongols de Gengis Khan. El-Kâmil voit le territoire de son Kurdistan original ravagé, l’élément perse subjugué et l’héritage de Saladin menacé jusqu’en Egypte. Il envoie un ambassadeur, l’émir Fakhr ed-Din, à Frédéric, pourtant excommunié, pour lui implorer son secours contre El-Mouazzam et Djélal ed-Dîn Mangouberdi; en échange, il lui offre Jérusalem, reprise jadis par son oncle Saladin.

Les Croisades échouent parce qu’elles n’ont pas le soutien pontifical

Les croisés du Saint-Empire romain germanique débarquent à Saint-Jean-d’Acre sous le commandement de Henri de Limbourg, qui bien vite, repousse les troupes d’El-Mouazzam et vient en aide à Hermann von Salza, grand maître de l’Ordre Teutonique en Palestine. El-Mouazzam meurt avant l’arrivée —tardive, il est vrai— de Frédéric. El-Kâmil marche sur Damas avec les troupes de son frère El-Achraf, sultan de Mésopotamie. Après moultes tergiversations, El-Kâmil et Frédéric s’entendent pour donner à Jérusalem un statut de condominium, acceptable pour les deux parties. Les Germains l’occupent et l’administrent officiellement, flanqués d’un cadi musulman, en charge de guider les pélerins vers l’enceinte du Haram ech-Chérif. C’était en 1229. Frédéric est rappelé en Italie, où les intrigues pontificales suscitent révoltes et troubles. Sa victoire diplomatique n’est pas reconnue comme telle. Triste exemple de mauvaise foi.

En 1239, les Croisés obtiennent encore une victoire, en conquérant la Galilée et Ascalon. Mais, faute de soutien pontifical, cette victoire sera de courte durée: les Turcs Khwarezmiens prennent Jérusalem en 1244, puis Tibériade et Ascalon en 1247, prouvant par là même que la volonté frédéricienne de faire barrage commun avec les Kurdes de la famille de Saladin était un projet stratégique cohérent. Les Mongols, qui suivent les Khwarezmiens, comme l’avait prévu le Sultan El-Kâmil, prennent Bagdad en 1258. Il faudra un sursaut des mamelouks d’Egypte pour mettre un terme à la présence mongole en Palestine. Pire, la lutte de la Papauté contre l’Imperium de Frédéric affaiblit l’Europe, au point qu’elle a risqué une conquête mongole en 1240-41: les hordes de Batou, prennent Kiev en 1240, envahissent la Pologne, se heurtent victorieusement à l’armée impériale à Liegnitz en 1241, mais ne poursuivent heureusement pas leur course plus loin à l’Ouest. Une autre horde longe le Danube et ravage la Hongrie. Une fois de plus, les deux attaques turco-mongoles ont été simultanées, comme au temps des Seldjouks et des Coumans, à une époque où l’Europe était affaiblie par des querelles intestines, fomentées à Rome ou à Paris. Paradoxe: le Sultan El-Kâmil était plus lucide que le Pape romain!

L’émergence de la puissance ottomane

Après les croisades, les sultanats seldjouks disparaissent. L’Anatolie est fractionnée entre des émirats antagonistes, dont les principaux sont ceux de Karaman, de Sivas et, enfin, celui des Ottomans, qui connaitra un grand destin. Les Ottomans, proches de la Mer de Marmara et de Constantinople, parviennent à prendre pied à Gallipoli en 1354. Sur la rive européenne, l’empire serbe de Stéphane (ou Etienne) Douchan, qui s’étend de Belgrade à l’Egée, se décompose en plusieurs petites entités rivales à la mort du grand roi en 1355. Les Bulgares sont également divisés en fractions rivales. Ce désordre et ces querelles fratricides permettent aux Ottomans de passer à l’attaque et d’annihiler Serbes et Bulgares. Dans les années 1360, ils se bornent à grignoter le territoire des anciens royaumes cohérents des Serbes et des Bulgares, ce qui les amènent à contrôler la Thrace. Dans les années 1370, ils établissent une frontière militaire contre les Slaves des Balkans. Dans les années 1380, ils font des Serbes et des Bulgares leurs vassaux. En 1389, le Sultan Bayazid bat les Serbes au Champs des Merles (Kosovo) et force les émirats turcomans à l’Ouest de l’Euphrate à se soumettre à son autorité. Un croisade de secours, franco-germanique, dont fait partie notre Duc Jean Sans Peur, est écrasée en Bulgarie en 1396. Bayazid Yildirim (le “Tonnerre” ou la “Foudre”) se rend maître de l’ensemble des territoires jadis byzantins sauf Contantinople et Trébizonde, devenues des enclaves urbaines isolées de leur environnement. La masse territoriale de l’Empire d’Orient devient ottomane. Les anti-unionistes orthodoxes imaginent une théologie qui puisse fusionner le christianisme grec et l’islam turc (Georgios Scholarios, dit “Gennadios”, Georgios Amoiroutzès de Trébizonde), d’autant plus qu’avant la conquête du Proche-Orient par les Ottomans, l’empire est majoritairement “grec”. Les nouveaux maîtres vont reprendre à leur compte les stratégies d’expansion des Byzantins en direction des Balkans, puis vont reconquérir le Proche-Orient, la Mésopotamie et l’Egypte (début du XVIième siècle) et se heurter aux Perses.

Mais l’oeuvre géopolitique de Bayazid Yildirim sera ruinée par un chef tatar converti à l’islam, qui n’aura détruit que des empires musulmans au cours de sa fulgurante carrière: Timour Leng ou Tamerlan, qui le bat à Ankara en 1402, donnant paradoxalement un répit à l’Europe. Prisonnier de Tamerlan, Bayazid meurt en captivité. Mais le chef tatar abandonne l’Anatolie; il a un autre projet: envahir la Chine et la détruire comme il a détruit l’Inde de Dehli. Il meurt en chemin. L’empire ottoman peut renaître et se retourner contre l’Europe: Mehmet II Fatih prend Constantinople en 1453, chasse les Génois de Crimée, vassalise les Tatars de cette presqu’île russe, devient le maître incontesté de l’espace pontique. Il ne commet pas l’erreur des Seldjouks: laisser le flot démographique turcoman d’Asie centrale se déverser sur ses possessions; il oblige les “Turcs de la Horde du Mouton Blanc” à demeurer à l’Est de l’Euphrate, ce qui lui permet de réorganiser en paix les territoires conquis sans devoir subir le désordre d’une immigration incontrôlée. Son premier objectif est de se rendre maître de toute l’Egée, d’arracher aux Vénitiens et aux Génois tous leurs comptoirs dans le bassin oriental de la Méditerranée. Lesbos tombe en 1462 et Eubée en 1470. Remarque: c’est Tamerlan qui sert de modèle à Zbigniew Brzezinski aujourd’hui car il détruit sans les reconstruire les empires du rimland eurasien. Ce principe dit “mongol” séduit Brzezinski car, s’il est appliqué à intervalles réguliers, aucune concentration de pouvoir ne peut demeurer en Eurasie sur la longue durée, en étant capable de challenger l’unique superpuissance encore en place sur cette planète.

Chevaux, chars de combat et roues à rayons

Revenons au destin de la Perse, dans la période qui va des premières croisades à l’expansion ottomane du 15ième siècle. Cette histoire est instructive pour les temps présents, où la région est à nouveau théâtre de guerres. Depuis des temps immémoriaux, des tribus indo-européennes (aryennes) erraient dans la steppe, de l’Ukraine à la Mer d’Aral. Elles avaient domestiqué le cheval. Elles étaient partiellement sédentaires (culture de Fatyanovo dans le bassin de la Volga). Elles semblent avoir commencé leurs mouvements vers l’Oural avec la culture d’Usatovo (entre –4000 et –3000). Celle-ci est suivie de la culture dite de Serednij Stog, puis par celle de Jamnaïa, qui sera la culture-source des grandes expansions indo-européennes de la proto-histoire vers l’Iran, l’Inde et probablement la Chine. Dans son grand atlas historique, le Prof. Jacques Bertin souligne l’importance de la culture d’Afanasievo (-2400 à –1700): “L’expansion indo-européenne, depuis l’Ukraine, atteint toute l’Asie centrale. La culture d’Afanasievo (…) profite de la richesse en minerais et en pâturages des montagnes de l’Altaï et des Saïan pour développer l’élevage (chevaux, bovins), l’agriculture et fabriquer des bijoux en métal (…). Une agriculture irriguée est pratiquée au sud de la steppe près de la Mer d’Aral (culture de Kelteminar) et au pied des montagnes de Turkménie”. Ensuite, ajoute-t-il, la culture de Glaskovo (-1700 à –1200) fait de “la région le lieu d’échange entre l’Ouest et la Chine”. Le déssèchement général amène des transformations, mais Bertin constate que la civilisation de Glaskovo, vers –1300 continue à “rayonner sur le Bassin de l’Amour”.

Vers –1800, ces cavaliers apparaissent en Iran et dominent les Elamites de souche dravidienne. Ils forment l’aristocratie cavalière chez des peuples dravidiens (comme les Kassites) ou caucasiens (les Hurriens organisés par les Mitanni indo-européens). Les Mitanni nous ont laissé un manuel d’entraînement de cavalerie et d’utilisation du char de combat; on a découvert ce document à Hattusas, la capitale des Hittites. Plus loin, ces mêmes tribus, qui maîtrisent la technique militaire du char et de la roue à rayons, déboulent en Chine et jettent les bases de l’organisation militaire des futurs empires chinois (période de –1600 à –1400). Vers –1275, trois branches indo-européennes orientales distinctes occupent l’espace qui va de la Mer d’Azov aux confins de la Chine et de la Mer d’Aral à la Perse à l’Ouest et à l’Inde à l’Est: les Scytho-Cimmériens, les Iraniens et les Indiens.

Zarathoustra

En -714, des troupes scythes et cimmériennes bousculent le royaume caucasien d’Ourartou, s’établissent en Anatolie, puis défont les Assyriens en –705. Le facteur indo-européen et cavalier devient décisif et incontournable au Moyen-Orient: jusqu’à l’avènement de l’Islam, plus aucun empire de facture sémitique ne s’imposera à la région. Toutes les directions politiques seront scythes, cimmériennes, mèdes, perses, grecques, macédoniennes, parthes ou romaines. Vers -560, apparaissent les Mèdes, qui soumettent Arméniens, Cimmériens d’Anatolie et Perses (une petite tribu reléguée dans le Sud peu fertile de l’Iran actuel). Pourtant ce seront les Perses, en –533, qui prendront la direction de l’ensemble, fort vaste, de l’Empire mède. C’est là que commence la véritable histoire de l’Iran.

Elle est précédé par l’apparition d’une figure prophétique, celle de Zarathustra ou Zoroastre, entre –610 et –590. Ce réformateur religieux est né en Bactrie, région centre-asiatique au nord de l’Iran actuel, où attendent, comme dans une anti-chambre, les peuples cavaliers de la steppe sibérienne pour jouer un rôle politique prépondérant dans le rimland moyen-oriental et mésopotamien, comme l’atteste l’histoire, depuis les Elamites et les Hurriens. Considéré comme un trouble-fête dans sa région natale, Zarathustra émigre par la suite dans le royaume de Chorasmie —situé au sud de la Mer d’Aral selon les uns, sur le cours moyen du fleuve Amou Daria pour les autres— où le roi Vishtapa l’accueille et accepte son code religieux, social et éthique. Les prêtres traditionnels, représentant d’une hiérarchie figée et adeptes d’une religiosité purement formelle et rituelle, organisent une révolte générale contre la nouvelle foi. Zarathoustra meurt martyr en –553. Il avait jeté les bases d’une religion de la justice, de la participation active du croyant à la chose politique, participation positive qui sera, disait-il, jugée par Dieu lors d’un Jugement Dernier. Le modèle “messianique”, plus exactement celui du “saoshyant”, du “Sauveur qui aide”, “qui vient pour aider”, est né dans cet espace scytho-iranien, entre la Mer d’Aral et la vallée de l’Amou Daria. Les Juifs, avec le prophète Daniel, le ramènent de la captivité babylonienne, après la victoire des Perses de Cyrus contre les héritiers de Nabukhodonosor. Le modèle, mutatis mutandis, sera repris par le Christ puis par deux prophètes iraniens, Mani et Mazdak, qui connaîtront également le martyr, et, enfin, mais cette fois-ci en Arabie, par Mahomet.

La fin des Séleucides et l’arrivée des Parthes

Les Achéménides (-550 à –330) acceptent le zoroastrisme dans ses grandes lignes, comme un moyen commode d’unir Perses et peuples soumis. Le zoroastrisme, devenu ainsi religion d’Empire, survit sans problème à la parenthèse des conquêtes d’Alexandre. Et se diffuse dans tout l’espace dominé par les Perses, créant une véritable diaspora, véhiculant l’esprit d’une “certaine civilisation iranienne”. Sous les Séleucides, qui prennent le relais après le partage de l’empire d’Alexandre, la Perse hellénisée connaît une longue période de déclin et perd les régions clefs de la Bactriane et de la Sogdiane au nord de l’Oxus (= Amou Daria). De nouveaux nomades indo-européens venus de Sibérie vont s’y concentrer: parmi eux, les Parthes, sous l’impulsion des Arsacides. Les Séleucides s’opposent à la progression parthe, qu’ils jugent à juste titre fort dangereuse. Ils n’y parviennent pas à cause d’un soulèvement levantin à Antioche. Les Parthes avancent jusqu’en Hyrcanie (la région qui se trouve au sud de la Caspienne). Antiochos III rétablit la situation, bat les Egyptiens, reprend la Syrie et la Palestine, s’allie avec les nomades indo-européens de Bactriane, renoue avec l’empire indien des Maurya, mais répond —décision funeste— à l’appel de Philippe V de Macédoine, qui fait face à la colère de Rome, parce qu’il avait soutenu Carthage. Antiochos III lui envoie des renforts, qui sont écrasés par les légions aux Thermopyles. Les Romains entament la poursuite, franchissent le Bosphore, écrasent l’armée séleucide en –189. Les Séleucides perdent l’Asie Mineure. La Macédoine perd son indépendance. L’Arménie se déclare indépendante.

L’empire séleucide, fort diminué, est donc coincé entre les Parthes et Rome. Il doit abandonner toute prétention sur l’Egypte, faire face à la révolte juive des Maccabées (-167 à –164), ce qui lui ôte toute possibilité d’expansion vers le Sud. Pendant qu’Antiochos IV perd ses pions en Palestine, les Parthes s’emparent de toutes les régions de l’Iran actuel et entrent en Mésopotamie. Ils y fondent une nouvelle capitale: Ctésiphon. Les Arsacides prennent le relais d’une dynastie hellénisée mais épuisée. Malgré une période romanophile au début de l’ère parthe, sous l’imperium d’Auguste, le conflit entre les deux puissances surviendra bien vite et durera, après la fin des Arsacides et l’avènement des Sassanides en +220, jusqu’à la chute de Rome au 5ième siècle, se poursuivra avec Byzance jusqu’à l’avènement de l’islam. Le principal but géopolitique de cette très longue guerre est le contrôle de l’Arménie, dont le territoire abrite la plupart des sources des grands fleuves du Croissant Fertile et dont les hautes terres permettent de surplomber militairement toute la région.

samedi, 16 mai 2009

La face sombre de la Turquie, incompatible avec l'Europe "bien-pensante"

La face sombre de la Turquie, incompatible avec l'Europe 'bien pensante'

090509"Douleur et honte", titrait le quotidien turc Milliyet le 6 mai. La veille 44 personnes avaient été massacrées au cours d'une noce dans le village kurde de Bilge. Et le même journal déplorait dès lors que "la face sombre de la Turquie" ait scandalisé l'opinion mondiale.

Le ministre de l'Intérieur évoque, comme motivation "l'hostilité entre deux clans familiaux" liés aux protecteurs de village. Besir Atalay, déclare : "Cet acte ne s'est pas produit par hasard. On ne peut pas expliquer cet événement par un coup de folie, il a été prémédité".

En tout état de cause le scénario brille par sa sauvagerie. La cérémonie de mariage se terminait, quand  les assaillants, armés de fusils mitrailleurs et de grenades, ont fait feu, pendant plus d'un quart d'heure, sur des gens désarmés. Ils ont arrosé de balles les habitants de plusieurs maisons. Au nombre des victimes tuées : la jeune mariée, son époux, les parents, la petite sœur âgée de quatre ans, et l'imam du village, ainsi que 16 femmes, dont 3 enceintes. Au total, plus de 40 orphelins. Deux jeunes filles rescapées ont sauvé leur vie en se cachant sous les cadavres des victimes, jusqu'au départ des tueurs. Ceux-ci ont pris la fuite à la tombée de la nuit, à la faveur d'une tempête de sable.

Dès le lendemain, les médiats turcs utilisaient une technique toujours efficace : la surinformation. Et de citer une série de conflits récents entre clans rivaux. On emploie ainsi le mot passe-partout de règlement de comptes. Les actes de vendetta constitueraient, assure-t-on, une pratique coutumière dans la région. Ils font des dizaines de victimes chaque année. On parle aussi de "crime d'honneur".

Cette expression n'excuse pas la barbarie. Mais elle permet de mettre tout cela commodément au débit de l'arriération régionale de l'est anatolien. On emploie cette expression géographique, pour esquiver son caractère ethnique. Les statistiques mondiales diffusées par la CIA donnaient, en avril 2009, le nombre  très précis de 76 805 524 pour évaluer le compte futur des habitants, à fin juillet, de la république unitaire forgée par Mustapha Kemal. Mais le pourcentage des Kurdes n'est indiqué que de façon beaucoup plus vague, "autour de 20 %" . L'identité nationale des "Turcs de la montagne" n'est toujours pas reconnue officiellement par Ankara (1), sauf quand il s'agit d'expliquer, en les leur imputant, certains faits d'apparence particulièrement choquante.

Un des suspects, lors de son interrogatoire, aurait servi une version trop vite reprise par la complaisance de certains médiats, y compris occidentaux. L'attaque s'expliquerait en tant que représailles exercées par sa famille à l'encontre de celle de la mariée. Celle-ci aurait préféré donner en mariage la jeune femme à un groupe rival. "Quelqu'un de la famille de la fiancée avait violé une fille de notre famille. Nous avions demandé que la fiancée nous soit donnée en mariage. Ils ont refusé et ont en fait donné la fille à une famille qui est ennemie de la nôtre".

Selon le ministre de la Justice Sadullah Ergin, la question d'honneur concernant une femme ne saurait constituer le vrai motif. "Il existe nécessairement, dit-il un mobile financier". Et il évoque un conflit pour des élevages de poissons près du village.

Sur onze personnes interpellées, onze versions différentes.

Et un universitaire, spécialiste des traditions ancestrales de la région, interrogé par le quotidien Hurriyet, souligne par ailleurs l'incompatibilité absolue du mode opératoire de ce massacre abominable avec les règles du "crime d'honneur".

Les suspects ont été arrêtés avec leurs armes. Or le matériel de guerre ainsi utilisé fait partie de la dotation allouée par le gouvernement d'Ankara aux quelque 60 000 auxiliaires kurdes recrutés depuis 1985 afin de lutter, contre la guérilla marxiste-léniniste du PKK, qui endeuille le pays depuis maintenant 25 ans.

Ces milices n'ont certes pas inventé les armes à feu . Elles n'en détiennent pas non plus le monopole. Mais leur existence permet de les faire circuler légalement dans toute la région. Les bons esprits demandent donc la dissolution de ces groupes, arguant aussi du fait que leurs hommes de main se trouvent régulièrement impliqués dans des affaires de drogue ou de viols.

C'est bien en cela que Milliyet a raison de parler de "la face noire de la Turquie". L'expression qui prévaut, depuis 1996-1997, désigne "l'État profond". Cette réalité occulte régente le pays, sous le drapeau de sa "laïcité" et de son idéologie jacobine.

Car depuis 1996, la preuve matérielle a été administrée, de façon spectaculaire, de l'existence bien concrète et de la nature de cet "État profond".

Des liens étroits associent en un même système mafieux, un certain nombre de forces réputées laïques, au service desquelles, ailleurs les "loups gris", comme, ici, les milices de "protecteurs de villages" exécutent certaines basses œuvres. Ceux-ci en assurent la sous-traitance dans le sud-est anatolien, où sévit la rébellion kurde du PKK.

Que s'est-il passé en novembre 1996 pour faire date dans la révélation de ces réseaux de pouvoir ?

Rappelons qu'à l'époque la bien-pensance européenne ciblait uniquement les activités criminelles attribuées aux rebelles du Kurdistan. Or, un malencontreux accident de la route renversa toutes les insinuations des dirigeants et des propagandistes d'Ankara.

Il révélait qu'en fait l'État turc lui-même opérait en relation avec la mafia.

L'événement clef se produisit fortuitement, près de Susurluk, dans la charmante province de Balikesir, sur la route menant de la capitale au port égéen appelé aujourd'hui Izmir. Le 3 novembre, bêtement, une Mercedes un peu trop rapide était percutée par un camion. Dans le coffre du véhicule en lambeaux, les gendarmes allaient bientôt découvrir 5 pistolets de différents types et calibres, deux mitrailleuses MP-5, des silencieux pour ces armes et deux appareils d'écoutes.

Lorsqu'on identifia les corps, on découvrit qu'il s'agissait de personnages dont l'association n'était pas prévue par les programmes officiels. Se trouvaient à bord, en premier lieu un chef policier Hüseyin Kocadag et un ancien dirigeant des loups gris recherché vainement depuis 18 ans par les forces de la sûreté. Ce dernier, Abdullah Catli, disposait sous une identité falsifiée d'un authentique "passeport vert", réservé en principe aux représentants officiels de l'État. Sa maîtresse Gonca Uz considérée comme un agent du MIT, le service de renseignement militaire turc, se trouvait également à bord.

Curieusement le ministre de l'Intérieur de l'époque, Mehmet Agar, qui était directeur général de la police avant d'être élu au parlement sur la liste de Mme Ciller, contribua par ses déclarations à géométrie variable à soulever encore plus de suspicions à propos de l'accident. Agar nia tout d'abord la présence de Catli dans la voiture. Plus tard, il devait affirmer, non moins faussement, que Kocadag et le quatrième personnage, un excellent parlementaire, étaient en train d'emmener Catli à Istanbul pour le livrer aux forces de sécurité.

Seul survivant du drame, l'honorable député Sedat Bucak s'en tira avec une fracture de crâne et une jambe cassée. Membre du parti gouvernemental de Mme Tansu Ciller, élu de la belle région d'Urfa, il n'était autre que le chef de la tribu Bucak. Celle-ci fournit en nombre les rangs des forces paramilitaires connues sous le nom de "gardiens de villages". Alors qu'il était emmené à l'hôpital il prévint ses hommes de main qui récupérèrent dans la voiture un sac blanc contenant 10 milliards de livres turques.

En octobre 2005, l'insoupçonnable Sedat Bucak interviendra comme témoin lors du procès de Leyla Zana. Il cherchera à enfoncer cette courageuse ancienne députée du parti kurde DEP, affirmant qu'elle représentait ou qu'elle opérait une liaison permanente avec le PKK.

D'effroyables règlements de compte continueront donc pendant de longues années encore à endeuiller le sud est anatolien.

On voit mal comment l'eurocratie avec ses beaux principes politiquement corrects pourrait s'entremettre entre les opérateurs armés. L'armée turque, jusqu'à nouvel ordre représente une part de la légitimité internationale et même de la crédibilité du pays. Elle se montre encore décidée à utiliser tous les moyens pour maintenir l'unité de l'État, y compris en s'alliant avec des chefs tribaux et les réseaux violents et mafieux. Ainsi le 8 mai, on apprenait qu'à Ankara le porte-parole de l'Etat-Major récusait les critiques, suscitées par "l'incident" du 5 mai, à l'endroit des protecteurs de villages. De son côté, le parti islamo-conservateur utilise les procédures de l'Europe pour contre carrer le reliquat militaire kémaliste. Et, enfin, la guérilla, avant tout dédiée à la cause révolutionnaire, persistera à incendier et ensanglanter la montagne kurde.

Pour toutes ces raisons, et quelques autres, je crois franchement très prématuré de laisser entrer la Turquie dans l'Union européenne.

 

Apostilles

  1. Quoique les deux concepts "kurde" et "alevi" ne se recoupent que très partiellement, il en va de même pour la minorité religieuse alevi. Henri Lammens tend à démontrer que cette branche hérétique tardive de l'islam est crypto-chrétienne. Systématiquement persécutée par les fonctionnaires de la "Diyanet", direction des Affaires religieuses, cette minorité ne semble guère préoccuper les grandes consciences professionnelles.
JG Malliarakis

Encerclement de l'Iran (1/6)

L’encerclement de l’Iran à la lumière de l’histoire du “Grand Moyen-Orient” (1/6)

Extrait d’une allocution de Robert Steuckers à la Tribune de “Terre & Peuple-Lorraine”, à Nancy, le 26 novembre 2005.
Ce document sera publié en six parties.

(Synergies européennes - Bruxelles - mai 2006) - L’objectif des manoeuvres américaines dans le “rimland” entre la Russie et les mers chaudes (Méditerrannée, Océan Indien, Golfe Persique) vise non seulement à empêcher la constitution et la consolidation de tout axe Moscou-Téhéran, voire Beijing-Téhéran, mais aussi à encercler l’Iran, pièce centrale du marché commun que les Etats-Unis veulent faire émerger et appellent “Grand Moyen Orient”, une vaste zone dont ils entendent faire un débouché pour leur propre industrie, complétant ainsi les atouts que leur offre le contrôle économique du continent sud-américain, transformé de facto en un “Ergänzungsraum” (“espace de complément”) depuis l’émergence de l’idéologie panaméricaniste, mais espace aujourd’hui rebelle qui s’auto-organise via des structures unificatrices et continentalistes telles le Mercosur ou la “Communauté andine des nations”, ou via des suggestions indépendantistes, baptisées “bolivaristes” et formulées par le président vénézuélien Hugo Chavez. Ces structures modernes, incarnant un esprit de résistance latino-américain, entraînent une réorientation, encore timide mais certaine, du commerce et de l’économie sud-américains vers l’Europe ou vers l’Asie, diversifiant ainsi les rapports de dépendances; ce qui permet à l’Amérique ibérique de déserrer l’étau du “panaméricanisme” imposé par les Etats-Unis à leur seul profit.

En prenant l’Afghanistan et l’Irak, les Etats-Unis ont commencé la construction de leur “Grand Moyen Orient”, en éliminant par la force la rétivité du Baath irakien et de Saddam Hussein et en occupant le plateau afghan, jamais conquis par les Britanniques au 19ième siècle. Avec ces deux victoires militaires, non encore parachevées mais en voie de l’être, les Etats-Unis ont ipso facto encerclé l’Iran, aire centrale du “Grand Moyen Orient” dont ils ont programmé la future émergence. Les Etats-Unis occupent désormais la périphérie des anciens empires perses et installent des bases militaires afin d’asphyxier à terme l’Iran.

Les deux seuls rôles que l’Iran peut jouer…

L’éventuel axe Moscou-Téhéran aurait permis à la Russie de se doter d’une fenêtre sur l’Océan Indien et de détenir une proximité stratégique avec la Mésopotamie irakienne et ses champs pétrolifères, avec le Koweit et l’Arabie Saoudite. Le territoire iranien est effectivement l’une des pièces maîtresses —avec l’Empire ottoman déjà soutenu par Londres en 1798-99 contre Bonaparte en Egypte— du dispositif de “containment”, d’endiguement anti-russe. Dès 1801, quand le Tsar Paul I, malgré sa saine hostilité à l’endroit de tous les avatars nauséabonds de la révolution française, veut s’allier à Bonaparte pour envahir les Indes, Londres dépêche un certain Capitaine John Malcolm, très jeune mais excellent connaisseur de la langue persane, auprès de l’empereur perse pour en faire un allié et contenir la poussée probable des Cosaques le long de la côte orientale de la Caspienne. Aux yeux des stratégies thalassocratiques anglo-saxonnes, l’Iran ne doit avoir qu’un seul rôle, celui d’un verrou, destiné à empêcher toute progression russe en direction de l’Océan et du sub-continent indiens. Mais aussi d’un Etat sage, qui doit “oublier” l’existence même des littoraux arabiques du Golfe Persique et ne plus formuler aucune revendication sur ces terres; comme ce fut pourtant le cas dans les phases antérieures de son histoire. Si l’Iran entend changer de politique, s’allier à la Russie, se doter d’un armement capable de lui procurer la suprématie dans les eaux du Golfe, se détacher d’une tutelle étrangère imposée, il devient immédiatement un Etat ennemi, voire un “Etat-voyou” (selon la nouvelle terminologie médiatique américaine).

Le Shah est tombé parce qu’il s’entendait avec les Irakiens sur le Chatt-el-Arab et développait une capacité militaire amphibie (avec aéroglisseurs de combat) dans le Golfe lui permettant, le cas échéant lors d’un putsch “marxiste” à Bahrein, de débarquer des troupes sur la rive arabe du Golfe. Juste avant la “révolution” de 1978, la marine iranienne devait atteindre des effectifs substantiels et acquérir un matériel performant, avec pour objectif géopolitique, de “maintenir la stabilité et la paix” dans l’Océan Indien, zone où devait, selon le dernier Shah, émerger un “marché commun des pays riverains”. Le Shah entendait forger de bonnes relations avec l’Europe, y compris l’Europe de l’Est, contribuer à l’industrialisation de l’Inde, diversifier ainsi ses approvisionnements technologiques et ne plus dépendre de la seule Amérique. Dans sa “réponse à l’histoire”, le dernier Shah, évoquant l’invasion soviéto-britannique d’août-septembre 1941, est clair: “Comme en 1907 (cf infra), l’Iran devait être converti en un espace neutre, entretenu en état d’anarchie décente”. La “révolution” de 1978 n’avait pas d’autre objectif.

Comme le rappelle, dans ses mémoires personnelles, un ministre du gouvernement impérial iranien, Houchang Nahavandi, le mouvement de Khomeiny servait de fait les intérêts américains. Les Etats-Unis voulaient un Iran faible à leur dévotion, qui n’utiliserait pas les plus-values du pétrole pour se moderniser et s’armer, stagnerait dans une sorte de néo-médiévisme religieux, pimenté quelques fois de ce gauchisme hystérique et incapacitant, ramené par certains étudiants iraniens des campus ouest-européens ou américains. Bernard Hourcade rappelle d’ailleurs fort judicieusement que c’est l’antenne iranienne de la BBC qui a fait la promotion de Khomeiny et non pas une quelconque station soviétique ou chinoise (on dit en Iran aujourd’hui: “Rasez la barbe d’un mollah et vous verrez apparaître la mention “made in Britain” estampillée sur ses joues”, cf. Molavi, cit. infra). Mais finalement, le pouvoir islamique ne s’est pas aligné sur les positions américaines, n’a pas renoncé à certaines revendications territoriales iraniennes, a tenté de nouer des relations avec l’Europe et la Russie. L’Iran islamiste-révolutionnaire est dès lors mis au ban des nations parce qu’il reste finalement, comme l’explique fort bien l’iranologue français Bernard Hourcade, fidèle à une sorte d’exception persane au beau milieu de cette région centrale du continent asiatique, située sur l’ancienne Route de la Soie.

L’affrontement entre Rome et les Parthes

L’importance du passé perse pour comprendre la situation actuelle nous oblige à procéder à une longue rétrospective historique et à nous remémorer les événements qui ont secoué la région immédiatement avant la conquête arabe, tout juste après la mort de Mahomet. L’empire romain uni s’était heurté aux Parthes pendant des siècles. On se rappelle les expéditions de Lucullus en Asie Mineure entre 74 et 68 av. J. C., amenant la puissance romaine aux confins de l’Arménie du Roi Tigrane, qu’elle a vaincu, et de l’empire parthe. César, dans les mois qui ont précédé son assassinat aux Ides de Mars -44, carressait le dessein de conquérir les pays des Daces sur le Danube et de repousser les Parthes plus à l’Est. Bien plus tard, Trajan réalise ce projet géopolitique: il bat les Daces de Décébale, pénètre en Arabie Pétrée (autour du centre caravanier de Pétra) et entre en contact avec les Parthes. C’est lui qui pousse les frontières de l’empire romain jusqu’au Golfe Persique, en annexant successivement l’Arménie, la Mésopotamie et la Syrie, à la suite d’une campagne de trois ans (de 113 à 116 ap. J. C.). Son successeur, Hadrien, ne parvint pas à s’y maintenir, à la suite de contre-attaques parthes et d’une révolte juive dans tout le Levant. En 253, les Parthes prennent Antioche. En 259, l’empereur Valérien fait face à la nouvelle dynastie parthe, les Sassanides, est pris prisonnier, humilié. Les armées parthes pénètrent en Asie Mineure, tandis que les Germains harcèlent l’empire du Pas-de-Calais à l’embouchure du Danube. En 297, la victoire revient aux Romains, mais les Parthes conservent le monopole du commerce de la soie, qui vient de Chine. L’empereur sassanide Chahpuhr II envahit ensuite l’Arabie, et plus particulièrement le Yémen, puis bat les Romains en Mésopotamie, au cours d’une guerre de huit ans (337-339). L’empereur Julien meurt au combat contre les Parthes sassanides en 363.

La menace des Huns Hephtalites

Il faudra un danger extérieur, l’arrivée des Huns Hephtalites en 484 pour voir Romains d’Orient et Parthes unir leurs efforts contre l’ennemi commun, non indo-européen. Nous sommes en 505. Mais dès le danger des Huns Hephtalites conjuré, les Sassanides reprennent et pillent Antioche en 540. Ils s’allient ensuite aux Turcs (avant l’islam) pour battre les Hephtalites, abandonnant l’alliance byzantine. Les Sassanides s’allient alors aux Avars, établis en Pannonie (la Hongrie actuelle), pour prendre les Byzantins à revers dans les Balkans et sur le cours du Danube. Cette tribu hunnique faillit prendre Constantinople. Les Byzantins, Romains d’Orient, en profitent pour tenter de reconquérir l’Occident, sous l’impulsion de leur empereur Justinien (qui règna de 527 à 565); sous le commandement de Bélisaire, ils prennent Rome en 536 et battent les Wisigoths d’Espagne en 552. Ils christianisent les tribus africaines de la vallée du Nil en Nubie et au Soudan. Ils parviennent ainsi à établir une jonction permanente avec l’Ethiopie chrétienne, alors appelée empire d’Axoum, et à envahir le Yémen entre 522 et 525. L’objectif était de prendre les Perses à revers en contrôlant et en christianisant la péninsule arabique.

Abraha, gouverneur axoumite/éthiopien du Yémen, marche ainsi sur La Mecque encore arabe-païenne, flanqué de ses alliés arabes pro-byzantins, unis au sein de la Confédération de Kinda. Les Ethiopiens persécutent les païens et les juifs, tandis que les Perses, lors de leurs contre-attaques, persécutent les chrétiens. Ces événements se déroulèrent en 570, année de la naissance de Mahomet, dite l’”année de l’éléphant” (“Huluban”), parce que l’armée d’Abraha comprenait au moins un éléphant de guerre. Les Perses répliquent et envahissent le Yémen éthiopien, allié de Byzance en 575 et en font une province perse en 597. Tout au long de cette longue guerre entre Byzance et la Perse, les peuples sémitiques du Proche- et du Moyen-Orient sont soit les alliés de Byzance, tels les Nabatéens et les Ghassanides, soit les alliés des Perses, telles les tribus du Royaume Lakhmide. Les peuples sémitiques sont donc divisés, non seulement par leurs allégences politiques, mais aussi sur le plan religieux (ils sont païens, juifs ou chrétiens).

L’empereur perse Khosru II, entre 612 et 615, envahit la Syrie, la Palestine, l’Asie Mineure et pousse des pointes avancées en Egypte et jusqu’en Cyrénaïque. Héraclius, fils du gouverneur militaire byzantin d’Afrique du Nord, reprend l’empire en mains, rétablit une économie prospère, achète les Avars et prépare la revanche. En 627, les Byzantins, qui ont mis peu de temps à se redresser, contre-attaquent vigoureusement et mettent Ctésiphon, la capitale sassanide, à sac. Les deux empires de souche européenne sont exsangues face au monde extérieur.

La lutte entre Byzance et la Perse : arrière-plan de l’émergence de l’Islam

Ce conflit interminable a marqué le jeune Mahomet, caravanier d’Arabie. La péninsule est envahie au Sud et, au Nord, les peuples sémitiques, parlant l’araméen, chez lesquels aboutissent les caravanes, participent à la guerre. Mahomet doit trouver une formule pour rétablir les communications puis pour unir des populations hétéroclites, fragmentées en tribus hostiles les unes aux autres, hostilité sur laquelle se greffent encore des clivages religieux. Cette guerre permanente de tous contre tous ne permet aucun projet: ni politique ni économique ni commercial. Mahomet forge alors la foi islamique en écrivant en araméen le Coran, fait référence à l’archange Gabriel (“Jibraïl”); c’est une foi simplifiée, accessible, claire dans sa formulation, soustraite aux querelles des iconoclastes et des iconodules qui ravagent Byzance et la minent de l’intérieur. Son objectif est raisonnable et limité: pacifier, grâce à un code modèle, le territoire où circulent ses caravanes et celles de ses homologues. Les opérations militaires qu’il mène ne dépassent pas le cadre des routes et pistes de l’Ouest de la péninsule arabique. Il réussit à unir ce versant occidental de la péninsule d’Akaba à Aden. A l’Est, Bahrein et Oman reconnaissent le code suggéré par Mahomet. Jusqu’à la mort de ce dernier en 632, aucun prosélytisme extra-arabique ne semble poindre.

Les Arabes battent Byzantins et Perses exsangues

Après 632, Abou Bakr, son beau-père et successeur, unifie entièrement l’Arabie, parachève l’oeuvre politique et géopolitique de Mahomet, et envoie de petites armées vers le nord et bat, contre toute attente tant ses effectifs sont insignifiants, les Byzantins à Gaza en 633; peu après, les Byzantins, exsangues, sont une nouvelle fois battus par le Général arabe Khalid Ibn al-Walid, disposant d’effectifs à peine plus nombreux. Le sort des deux empires est scellé: les Arabes n’ont besoin que d’armées ridiculement réduites pour battre les deux colosses qui se sont entre-déchirés à mort. Ils en profitent. Tout naturellement. En 636, Damas et Antioche tombent entre leurs mains. En 637, après la bataille de Qadisiyya, l’armée sassanide est battue et la capitale perse, Ctésiphon, est prise, réduisant à néant l’oeuvre de plusieurs générations d’empereurs sassanides. En 638, c’est le tour de Jérusalem. Toute la frange sémitophone/araméenne des deux empires passe preque entièrement à l’islam, puis vient le tour de l’Egypte et du reste de la Perse.

La morale à tirer de cette victoire des maigres forces arabes est simple: les empires, de matrice européenne, n’ont jamais uni leurs forces contre les périphéries, ont ignoré l’émergence des peuples hunniques d’Asie centrale et des peuples sémitiques de la péninsule arabique. L’islam est donc né, et s’est ensuite consolidé, d’une lassitude légitime face à ces guerres inutiles, surtout que le danger des Huns et des Avars aurait dû unir les trois empires, romain-byzantin, perse et gupta en Inde (envahi entre 450 et 535 par les Huns Hephtalithes qui avaient été arrêtés par les Perses), exactement comme les Romains, les Francs, les Wisigoths et les Burgondes avaient tu leurs querelles et uni leurs armées pour arrêter Attila dans les Champs Catalauniques. La disparition de l’empire gupta, rappelons-le, est une tragédie culturelle, dans la mesure où il avait été le théâtre d’une véritable renaissance hindouiste, qui consolidée, aurait fait émerger un môle de résistance plus sûr face aux futures religions prosélytes de toutes provenances. Une alliance des trois empires aurait, en outre, rendu inexpugnable l’ensemble du “rimland” euroasiatique, de l’Ecosse au Bengale.

Des Karakhanides aux Seldjouks

Après la conquête arabe, la Perse conserve malgré tout sa personnalité politique. D’autres invasions l’attendent et d’abord celle des Turcs seldjoukides. Ils venaient de la steppe d’Asie centrale et on les appelait les “Karakhanides” ou les “Toghuz Oghuz” ou, plus simplement, les “Ghuzz”. Neuf tribus composaient cette fédération. Vers le milieu du 11ième siècle, elles se divisent en deux branches: l’une envahit le sud de la Russie et l’Ukraine actuelle, l’autre l’Iran. Les tribus qui envahissent la Russie prendront le nom de “Coumans” et resteront païennes. Les autres tribus, rassemblées autour des Seldjouks, se mettent au service de Mahmoud de Ghazni, qui leur donne des terres près de l’actuelle cité de Merv. A la mort de Mahmoud, les Turcs battent son fils Massoud et l’empire perse ghaznavide s’effondre définitivement en 1040, prouvant par là que les serments de fidélité ne valent qu’au sein des mêmes groupes de peuples. Les Seldjouks appellent d’autres tribus turques ghuzz de la région de la Mer d’Aral. Les derniers Ghazvenides se replient en Afghanistan. L’Iran tombe alors entièrement sous la tutelle d’une élite militaire turque ghuzz-seldjoukide.

Manzikert : désastre byzantin

En 1055, sous la conduite de leur chef Toghrul Bey, les Seldjouks prennent Bagdad, se mettent au service du calife puis, quelques années plus tard, arrachent aux Byzantins l’ensemble de la Transcaucasie chrétienne, à la suite de la bataille décisive de Manzikert (1071), livrée pour le contrôle des hautes terres d’Arménie. La victoire turque fait perdre à Byzance toutes ses provinces d’Asie Mineure. Les clans d’Asie centrale suivent l’armée d’Alp Arslan, fils de Toghrul Bey, poussent leurs troupeaux devant eux et chassent tout le paysannat helléno-européen d’Anatolie: une véritable colonisation de peuplement! Le remplacement systématique d’un peuple par un autre! Dans les années 1070, c’est au tour de la Syrie et du Hedjaz (Ouest de la péninsule arabique). Alp Arslan devint ainsi le maître d’un immense empire islamique, dont le tremplin territorial avait été une région centre-asiatique non encore islamisée au nord de l’espace perse.

Le système turc est clair: prendre le contrôle des empires en en constituant le fer de lance militaire et en faisant main basse sur l’administration, en multipliant les serments de fidélité et en les trahissant immédiatement dès que l’occasion et les rapports de forces le permettent. Mais l’intransigeance turque braquera l’Europe qui se défendait bien par ailleurs: les petits royaumes espagnols, fondés par des guerriers suèves, alains ou wisigothiques, unissent leurs forces, reprennent Tolède, centre névralgique de la péninsule ibérique en 1085 et Badajoz en 1092; une poignée de Normands intrépides, sous le commandement de Roger de Hauteville, reprend la Sicile et Malte (1091), après un demi-siècle de lutte; Henri de Bourgogne devient roi du Portugal, espace ibérique dégagé en 1097 de l’emprise maure. Après cette élimination de la présence musulmane sur de vastes territoires européens, l’heure de la contre-attaque contre les Seldjouks va sonner: les Byzantins font appel au Pape Urbain II en 1095. Il prêche la croisade à Clermont-Ferrand, appelant les peuples et les nobles de l’Europe occidentale germanisée à chasser de la Romania byzantine les Turcs, désignés comme étant une “race étrangère”. Il sera entendu. Des milliers de volontaires issus du peuple partent avant les autres: ils sont écrasés. Les Turcs cessent de prendre l’idée de croisade au sérieux. A tort. Les armées de métier, commandées par les ducs et les princes avancent le long du Danube et traversent le Bosphore. Les croisés engagent le combat contre le Sultan de Rum, prennent Nicée. Le Normand Bohémond de Tarente et l’Occitan Raymond de Toulouse, connaissant la tactique turque du harcèlement par les archers et d’évitement de tout choc frontal, ne se laissent pas surprendre, lors d’une bataille ultérieure à Dorylée: ils modifient leur stratégie, rusent et manoeuvrent habilement, encerclent et écrasent l’armée turque et marchent sur Antioche. La route de Jérusalem, occupée par les troupes arabes fatimides venues d’Egypte, était libre. Les Croisés dénoncent l’alliance qu’ils avaient conclue tacitement avec les Fatimides, ennemis des Seldjouks, et prennent Jérusalem.

vendredi, 15 mai 2009

Citaat van Lee Kuan Yew, premier van Singapore

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Citaat van Lee Kuan Yew, premier van Singapore

“Westerse idealen benadrukken de rechten en privileges van het individu boven die van de groep en in het bijzonder boven die van de staat.

Westerse samenlevingen waarderen individuele vervulling – wat de Amerikaanse Onafhankelijkheidsverklaring noemt “the pursuit of happiness” – en regelen hun zaken dienovereenkomstig. Oosterse samenlevingen geloven dat individuen zich vervullen doorheen de grotere identiteit van de groep.

In het Chinees zegt men: “de kleine zelf opofferen om de grote zelf te bereiken.” Deze nadruk op naar anderen gerichte waarden – op communautaire waarden en plichten boven rechten – is één van de onderscheidende kenmerken van de nieuwe industrielanden, en in de ogen van vele sociologen de sleutelfactor in hun succes. Ik beweer niet dat Westerlingen niet in staat zijn tot onbaatzuchtige dienstverlening aan anderen, of dat er geen egoïsten zijn in het Oosten. Maar er is een reëel verschil tussen Oost en West. Elke samenleving heeft natuurlijk zowel communautaire als individualistische drijfveren. Elke samenleving, tussen recht en verantwoordelijkheden en tussen concurrentie en samenwerking. Dat moeten wij ook. In dit opzicht zijn wij een Oosterse samenleving, en dat moeten we blijven. Als we naar het andere uiterste overhellen, en zonder veel kritiek de Westerse opvattingen aanvaarden over de absolute suprematie van individuele rechten en vrijheden – opvattingen die zelfs in het Westen ter discussie staan – dan wordt dit onze ondergang.”


Lee Kuan Yew, premier van Singapore, 1989

La Russie, l'Angleterre et l'Afghanistan

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Histoire : la Russie, l’Angleterre et l’Afghanistan

Ex: Bulletin d'avril 2009 de "La Gazette du centre de langue et de culture russes"

 

A la suite de la progression de la Russie en Asie Centrale dans les années 1860 à 1870 (1), l’Afghanistan est devenu le théâtre d’affrontements entre la Russie et l’Empire britannique ! La deuxième guerre anglo-afghane a commencé en 1878, lorsque l’émir afghan, Cher-Ali, a reçu l’ambassade russe après avoir refusé d’accueillir l’ambassade britannique. L’armée anglaise, bien supérieure à l’armée afghane, lui a infligé une série de défaites. Mais, après avoir quitté les villes de Kaboul et Kandahar, elle est tombée dans des pièges, dans les défilés des montagnes et a été victime de brusques chutes de pierres. Les Britanniques ont subi de lourdes pertes par suite de maladies, malaria et refroidissements, dues aux brutales chutes de températures dans les montagnes. Quant aux Russes, ils « n’ont pas pu » empêcher, en janvier 1880, la « fuite » de Tachkent de l’émir Abdourakhman qui avait été renversé par les Anglais. Sous son commandement, des détachements afghans ont anéanti, en juillet 1880, une brigade britannique près de Maïvand. « Nous avons été confrontés à quelque chose de bien plus grave qu’une explosion de fureur de tribus sauvages déversant leur haine sur notre envoyé, écrivait le journal « The Times ». Manifestement, nous avons affaire à un peuple qui se révolte, irrité par notre présence et enflammé de haine contre tous les Anglais. La conquête d’un pays désertique et peu peuplé, vaut-elle de si gros sacrifices matériels et humains ? » . A la suite de cela, le gouvernement libéral de Gladstone a renoncé à annexer l’Afghanistan aux Indes et n’a gardé que des passages à travers l’Hindu Kouch, ainsi que le contrôle général de la politique extérieure de l’Afghanistan.

Au début de l’année 1919, le fils d’Abdourakhman, qui avait des liens étroits avec Londres, a été tué à la suite d’un coup d’état, et son fils Amanoullah a proclamé l’indépendance de l’Afghanistan. La Russie soviétique, qui soutenait tout mouvement contre les pays de l’Entente, est devenue son allié naturel. L’armée anglo-indienne, soutenue par l’aviation et les voitures blindées, a envahi le pays par le Sud. Cependant, les innovations techniques se sont montrées impuissantes devant les montagnes afghanes et l’absence de routes. On découvrit que les chars blindés étaient facilement transpercés par les balles de vieux fusils. Quant aux avions, ils tombaient, après avoir heurté un sommet, ou abattus par des tirailleurs qui se trouvaient dans les montagnes à la même altitude qu’eux. L’Angleterre a reconnu l’indépendance de l’Afghanistan.

Mais l’affrontement continuait. En 1929, Amanoullah a été renversé grâce au soutien des services secrets britanniques. Le consul général d’Afghanistan, Goulam-Nabi-Khan, a formé avec l’aide de Moscou, un gouvernement en exil à Tachkent et a commencé à recruter des partisans d’Amanoullah. Le 14 avril 1929, des éclaireurs soviétiques ont pris un poste frontière afghan sur l’Amou-Daria. Le 22 avril, un détachement commandé par Vitali Primakov (pseudonyme de Raguib-Bey) a pris la capitale de l’Afghanistan du Nord, Mazari-Charif. Puis, Primakov a déclaré au Quartier d’Asie Centrale que « dès les premiers jours, il a fallu affronter une population hostile de Turkmènes, Tadjiks et Ouzbeks ». Le 30 mai 1929, tout le détachement est retourné sur le territoire soviétique. En octobre, l’insurrection sous le commandement de Nadir Chah, ancien ministre de la guerre d’Amanoullah, a balayé les partisans d’une union, tant avec l’URSS qu’avec l’Angleterre.

Il n’est pas étonnant que le Quartier Général soviétique et son général en chef Nicolas Ogarkov, connaissant les péripéties des invasions précédentes de l’Afghanistan, aient été catégoriquement opposés à la  campagne d’Afghanistan de l’année 1979. Le bureau politique ne les a pas écoutés, et 10 ans plus tard, l’armée soviétique a dû se retirer sans gloire de l’Afghanistan toujours insoumis.

T. Aptekar

« Vremia Novosteï », 09 octobre 2001

 

 



(1) La conquête, le plus souvent pacifique, de l’Asie Centrale par les Russes a duré de 1854 jusqu’à la fin des années 1880. en 1895, le traité signé entre l’Angleterre et la Russie a défini la frontière russo-afghane.

vendredi, 08 mai 2009

Guerre liquide: bienvenue au Pipelineistan

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Guerre liquide : Bienvenue au Pipelineistan

Ex: http://www.polemia.com/ 

C’est sur un ton badin et plaisant que Pepe Escobar présente l’épineuse question du pétrole et du gaz liquide aux confins de l’Eurasie, les enjeux russes et chinois, l’appétit bien connu des Etats-Unis, le jeu des influences, les concurrences politiques locales et les risques à tout moment de nouveaux conflits. Il est conseillé au lecteur d’avoir à portée de vue un atlas géographique pour suivre les itinéraires des pipelines traversant un certain nombre de pays dont on ignore parfois l’existence ou tout au moins leur situation.

Polémia


Ce qui se passe sur l’immense champ de bataille pour le contrôle de l’Eurasie permettra de comprendre l’intrigue qui se déroule dans la ruée tumultueuse vers un nouvel ordre mondial polycentrique, connue également sous le nom de « Nouvelle Partie Formidable » [New Great Game]

« Nouvelle Partie Formidable »

Notre bonne vieille amie, l’absurde « guerre mondiale contre la terreur » que le Pentagone a malicieusement rebaptisée « la Longue Guerre », porte en elle une jumelle beaucoup plus importante, même si cette dernière est à moitié cachée – la guerre mondiale pour l’énergie. J’aime la désigner sous le nom de Guerre Liquide, parce que son circuit sanguin est constitué des pipelines qui s’entrecroisent sur les champs de bataille impériaux potentiels de la planète. Pour le dire autrement, si sa lisière essentielle, assaillie ces temps-ci, est le Bassin de la Caspienne, l’ensemble de l’Eurasie est son échiquier. Au plan géographique, pensez-y comme du Pipelineistan.

Tous les junkies géopolitiques ont besoin de leur dose. Moi, depuis la seconde moitié des années 90, c’est aux pipelines que je suis devenu accro. J’ai traversé la Caspienne dans un bateau-cargo azéri juste pour suivre le pipeline Bakou/Tbilissi/Ceyhan à 4 milliards de dollars, mieux connu dans cette partie d’échec sous son acronyme « BTC », qui traverse le Caucase. (Au fait, soit dit en passant, la carte du Pipelineistan est gribouillée de sigles, alors mieux vaut vous y habituer !)

J’ai également sillonné diverses Routes de la Soie modernes qui se chevauchent – ou, peut-être, des Pipelines de la Soie –, de possibles futurs flux d’énergie depuis Shanghai jusqu’à Istanbul, annotant mes propres itinéraires bricolés pour le GNL (gaz naturel liquéfié). J’avais l’habitude de suivre avec ferveur les aventures de ce Roi-Soleil d’Asie Centrale, ce président à vie sans avenir, le Turkmenbachi aujourd’hui décédé, « le dirigeant des Turkmènes », Saparmourat Niazov, à la tête de la République du Turkménistan, immensément riche en gaz, comme s’il avait été un héros à la Conrad.

 A Almaty, l’ancienne capitale du Kazakhstan (avant que celle-ci ne soit déplacée à Astana, au milieu de nulle part), les habitants étaient perplexes lorsque j’exprimais l’envie irrésistible de me rendre en voiture dans cette ville pétrolière en plein essor, Aktau. (« Pourquoi ? Il n’y a rien là-bas ».) Entrer dans la salle de commandement, façon Odyssée de l’Espace, du siège moscovite du géant russe de l’énergie Gazprom – qui détaille par affichage numérique le moindre pipeline d’Eurasie – ou au siège de la Compagnie Nationale du Pétrole Iranien à Téhéran, avec ses rangs bien alignés d’expertes en tchador des pieds à la tête, équivalait pour moi à entrer dans la caverne d’Ali Baba. Et ne jamais lire les mots « Afghanistan » et « pétrole » dans la même phrase est toujours pour moi une source d’amusement.

L’année dernière, le pétrole valait l’équivalent d’une rançon de roi. Cette année, il est relativement bon marché. Mais ne vous méprenez pas ! Le prix n’est pas la question ici. Que vous le vouliez ou non, l’énergie est toujours ce sur quoi tout le monde veut mettre la main. Alors, considérez ce reportage comme étant juste le premier épisode d’une très longue histoire de quelques-uns des coups qui ont été portés – ou seront portés – dans cette « Nouvelle Partie Formidable » d’une complexité exaspérante, qui a cours de façon incessante, peu importe quoi d’autre s’immisce cette semaine dans les gros titres.

Oubliez l’obsession des médias du courant dominant avec al-Qaïda, Oussama ben Laden « mort ou vif », les Taliban – néo, modérés ou classiques – ou cette « guerre contre la terreur », quel que soit le nom qu’on lui donne. Ce sont des diversions comparées aux enjeux élevés de cette partie pure et dure de géopolitique qui se déroule le long des pipelines de la planète.

Qui a dit que le Pipelineistan ne pouvait pas être amusant ?

Dr Zbig entre en scène

Dans son œuvre maîtresse de 1997 The Grand Chessboard [Le Grand Echiquier], Zbigniew Brzezinski – extraordinaire praticien de la real-politique et ancien conseiller à la sécurité nationale de Jimmy Carter, le président qui a lancé les Etats-Unis dans ces guerres modernes pour l’énergie – a exposé avec quelques détails juste la façon de s’accrocher à la « suprématie mondiale » américaine. Plus tard, son plan d’ensemble allait dûment être copié par cette bande redoutable de Docteurs No, rassemblés au Project for a New American Century de Bill Kristoll. (Le PNAC, au cas où vous auriez oublié ce sigle depuis que son site internet a fermé et que ses partisans sont tombés)[1].

Pour Dr Zbig, qui, comme moi, se shoote à l’Eurasie – c’est-à-dire, en pensant grand – tout se réduit à encourager l’émergence du bon groupe de « partenaires stratégiquement compatibles » pour Washington, dans les endroits où les flux énergétiques sont les plus forts. Cela, comme il l’a si délicatement formulé à l’époque, devrait être accompli pour façonner « un système de sécurité trans-eurasien plus coopératif ».

 A présent, Dr Zbig – dont parmi les fans se trouve évidemment le Président Barack Obama – a dû remarquer que le train eurasien qui devait livrer les biens énergétiques a légèrement déraillé. La partie asiatique de l’Eurasie semble voir les choses différemment.

Crise financière ou non, le pétrole et le gaz naturel sont les clés à long terme du transfert inexorable du pouvoir économique de l’Ouest vers l’Asie. Ceux qui contrôlent le Pipelineistan – et malgré tous les rêves et les projets qui sont faits là-bas, il est improbable que ce sera Washington – auront le dessus sur tout ce qui arrivera et il n’y a pas un terroriste au monde ou même une « longue guerre » qui puisse changer cela.

L’expert en énergie Michael Klare a contribué à identifier les vecteurs clés de la course sauvage qui se déroule actuellement pour prendre le pouvoir sur le Pipelineistan. Ceux-ci vont de la pénurie croissante des ressources énergétiques primaires (et de la difficulté d’y accéder) aux « développements douloureusement lents d’alternatives énergétiques ». Bien qu’on ne l’ait peut-être pas remarqué, les premières escarmouches dans la Guerre Liquide du Pipelineistan ont déjà commencé et, même dans la pire période économique, le risque monte constamment, étant donné la concurrence acharnée que se livrent l’Ouest et l’Asie, tant au Moyen-Orient que sur le théâtre de la Caspienne ou dans les Etats pétroliers d’Afrique, comme l’Angola, le Nigeria et le Soudan.

Dans ces premières escarmouches du 21ème siècle, la Chine a vraiment réagi très rapidement. Avant même les attaques du 11 septembre 2001, les dirigeants chinois ont élaboré une riposte à ce qu’ils voyaient comme une intrusion reptilienne de l’Occident sur les terres pétrolières et gazières d’Asie Centrale, en particulier dans la région de la Mer Caspienne. Pour être précis, en juin 2001, les Chinois se sont joints aux Russes pour former l’Organisation de la Coopération de Shanghai (2). Son sigle, OCS, doit être mémorisé. On n'a pas fini d'en parler.

A l’époque, fait révélateur, les membres juniors de l’OCS étaient les « Stans », ces anciennes républiques de l’URSS riches en pétrole – le Kirghizstan, l’Ouzbékistan, le Kazakhstan et le Tadjikistan – que l’administration Clinton et, après elle, l’administration de George W. Bush, dirigée par d’anciens barons de l’industrie pétrolière, zyeutaient avec convoitise. L’OCS devait être une association de coopération économique et militaire régionale à plusieurs niveaux, laquelle, ainsi que les Chinois et les Russes la voyait, fonctionnerait comme une sorte de couverture de sécurité autour de la bordure septentrionale de l’Afghanistan.

L’Iran est évidemment un nœud énergétique crucial de l’Asie Occidentale et les dirigeants de ce pays, eux non plus, n’allaient pas rester à la traîne dans cette « Nouvelle Partie Formidable ». L’Iran a besoin d’au moins 200 milliards de dollars d’investissements étrangers pour moderniser véritablement ses fabuleuses réserves pétrolières et gazières – et il vend donc beaucoup plus [de pétrole] à l’Occident que ne le permettent actuellement les sanctions imposées par les Etats-Unis.

Il ne faut pas s’étonner que l’Iran soit rapidement devenu la cible de Washington. Il n’est pas étonnant non plus que tous les likoudniks, de même que l’ancien vice-président Dick Cheney (« le pêcheur ») et ses chambellans et compagnons d’armes néoconservateurs, se masturbent à l’idée d’une attaque aérienne contre ce pays. Comme le voient les élites, de Téhéran à Delhi et de Pékin à Moscou, une telle attaque de la part des Etats-Unis, à présent improbable au moins jusqu’en 2012, serait une guerre non seulement contre la Russie et la Chine, mais contre l’ensemble du projet d’intégration asiatique que l’OCS entend représenter.

Le bric-à-brac mondial

Pendant ce temps, alors que l’administration Obama essaye de réparer sa politique iranienne, afghane et centre-asiatique, Pékin continue de rêver d’une version énergétique sûre et coulant à flot depuis l’ancienne Route de la Soie, qui s’étend du Bassin de la Caspienne (les Stans riches en hydrocarbures, plus l’Iran et la Russie) jusqu’à la province du Xinjiang, à l’extrême ouest de la Chine.

Depuis 2001, l’OCS a élargi ses objectifs et ses compétences. Aujourd’hui, l’Iran, l’Inde et le Pakistan bénéficient du « statut d’observateurs » dans une organisation dont l’objectif consiste de plus en plus à contrôler et à protéger non seulement les approvisionnements énergétiques régionaux, mais le Pipelineistan dans toutes les directions. C’est évidemment le rôle que les élites de Washington aimeraient que l’OTAN joue dans toute l’Eurasie. Etant donné que la Russie et la Chine espèrent de leur côté que l’OCS jouera un rôle similaire à travers l’Asie, diverses sortes de confrontations sont inévitables.

Demandez à n’importe quel expert de l’Académie Chinoise de Sciences Sociales à Pékin en rapport avec le sujet et il vous dira que l’OCS devrait être comprise comme une alliance historiquement unique de cinq civilisations non occidentales – russe, chinoise, musulmane, hindou et bouddhiste – et, à cause de cela, capable d’évoluer en un cadre pour un système collectif de sécurité en Eurasie. Il est certain que cette façon de voir mettra mal à l’aise les stratèges globaux classiques de l’establishment à Washington, comme le Dr Zbig et le conseiller à la sécurité nationale du Président George H W Bush, Brent Scowcroft.

Selon le point de vue de Pékin, l’ordre mondial du 21ème siècle en train de s’installer sera significativement déterminé par un quadrilatère de pays, le BRIC – pour ceux d’entre vous qui collectionnez à présent les sigles de la « Nouvelle Partie Formidable », cela veut dire : Brésil, Russie, Inde et Chine –, plus le futur triangle islamique constitué de l’Iran, de l’Arabie Saoudite et de la Turquie. Ajoutez-y une Amérique du Sud unifiée, qui n’est plus sous l’emprise de Washington, et vous aurez une OCS-plus mondiale. En théorie, du moins, c’est un rêve à indice d’octane élevé.

 La clé pour que cela se produise est la poursuite de l’entente cordiale sino-russe.

 Déjà en 1999, observant l’OTAN et les Etats-Unis qui s’étendaient agressivement dans les lointains Balkans, Pékin a identifié cette nouvelle partie pour ce qu’elle était : une guerre en développement pour l’énergie. Et, en jeu, étaient les réserves de pétrole et de gaz naturel de ce que les Américains allaient bientôt appeler « l’arc d’instabilité », une vaste bande de terre s’étendant de l’Afrique du Nord jusqu’à la frontière chinoise.

Non moins importants allaient être les itinéraires que les pipelines emprunteraient pour acheminer vers l’Ouest l’énergie enfouie dans ces terres. Là où ces pipelines seraient construits et les pays qu’ils traverseraient détermineraient une grande partie du monde à venir. Et c’est là où les bases militaires de l’empire américain (comme le Camp Bondsteel au Kosovo) (3) rencontraient le Pipelineistan (représenté, loin en arrière, en 1999, par le pipeline AMBO).

 AMBO, raccourci pour Albanian Macedonian Bulgarian Oil Corporation, une entité enregistrée aux Etats-Unis, construit un pipeline à 1,1 milliard de dollars, alias « le trans-Balkan », qui pourrait être achevé en 2011. Il fera venir le pétrole de la Caspienne vers l’Ouest, sans le faire passer ni par la Russie ni par l’Iran. En tant que pipeline, AMBO s’insère bien dans une stratégie géopolitique consistant à créer un quadrillage de sécurité énergétique contrôlée par les Etats-Unis. Ce quadrillage a d’abord été développé par le secrétaire à l’énergie de Bill Clinton, Bill Richardson, et plus tard par Dick Cheney.

 Derrière l’idée de ce « quadrillage » repose le va-tout de la militarisation d’un couloir énergétique qui s’étirerait de la Mer Caspienne en Asie Centrale jusqu’à la Turquie, en passant par une série d’anciennes républiques soviétiques désormais indépendantes, et, de là, rejoindrait les Balkans (puis l’Europe). Ce quadrillage était destinée à saboter les plans énergétiques plus vastes, à la fois de la Russie et de l’Iran. AMBO lui-même acheminerait le pétrole depuis le bassin de la Caspienne vers un terminal situé dans l’ancienne république soviétique de Géorgie dans le Caucase, le transportant ensuite par bateau citerne à travers la Mer Noire jusqu’au port bulgare de Burgas, où un autre pipeline assurerait la connexion jusqu’en Macédoine et ensuite jusqu’au port albanais de Vlora.

Quant au Camp Bondsteel, c’est la base militaire « durable » que Washington a gagnée des guerres pour les restes de la Yougoslavie. Ce serait la plus grande base à l’étranger que les Etats-Unis auraient construite depuis la guerre du Vietnam. La filiale d’Halliburton Kellogg Brown & Root l’aurait montée avec le Corps des Ingénieurs de l’Armée sur 400 hectares de terres agricoles près de la frontière macédonienne au sud du Kosovo.

Pensez-y comme d’une version conviviale cinq étoiles de Guantanamo avec des avantages pour ceux qui y sont stationnés, incluant massage thaïlandais et des tonnes de nourriture industrielle. Bondsteel est l’équivalent dans les Balkans d’un porte-avions géant immobile, capable d’exercer une surveillance non seulement sur les Balkans, mais également sur la Turquie et la région de la Mer Noire (considérée en langage néocon des années Bush comme « la nouvelle interface entre la « communauté euro-atlantique » et le « grand Moyen-Orient »).

Comment la Russie, la Chine et l’Iran ne pouvaient-ils pas interpréter la guerre au Kosovo, puis l’invasion de l’Afghanistan (où Washington avait auparavant essayé de faire équipe avec les Taliban et encouragé la construction d’un autre de ces pipelines qui évitent l’Iran et la Russie), suivie par l’invasion de l’Irak (ce pays aux vastes réserves pétrolières) et, finalement, le conflit récent en Géorgie (cette jonction cruciale pour le transport de l’énergie) comme des guerres directes pour le Pipelineistan ?

Bien que nos médias du courant dominant l’aient rarement imaginé de cette manière, les dirigeants russes et chinois y ont vu une « continuité » saisissante de la politique de l’impérialisme de Bill Clinton s’étendant à la « guerre mondiale contre la terreur » de Bush. Un retour de bâton, comme a prevenu publiquement le président russe d’alors Vladimir Poutine, était inévitable – mais c’est une autre histoire de tapis volant, une autre caverne dans laquelle nous entrerons une autre fois.

Nuit pluvieuse en Géorgie

Si l’on veut comprendre la version washingtonienne du Pipelineistan, on doit commencer avec la Géorgie, où règne la mafia. Bien que son armée ait été ratatinée dans sa récente guerre avec la Russie, la Géorgie reste cruciale pour la politique énergétique de Washington, dans ce qui est désormais devenu un véritable arc d’instabilité – à cause de l’obsession continuelle [des Américains] de couper l’Iran des flux énergétiques.

 C’est autour du pipeline BTC (Bakou-Tbilissi-Ceyhan), ainsi que je le faisais remarquer en 2007 dans mon livre Globalistan, que la politique américaine s’est figée. Zbig Brzezinski en personne s’est envolé pour Bakou en 1995, en tant que « conseiller à l’énergie », moins de quatre ans après l’indépendance de l’Azerbaïdjan, pour vendre cette idée aux élites azéries. Le BTC devait partir du terminal de Dangachal, à une demi-heure de Bakou, et traverser la Géorgie voisine jusqu’au terminal naval situé dans le port turc de Ceyhan, sur la Méditerranée.

A présent opérationnel, ce serpent de métal de 1.767 kilomètres de long et de 44 mètres de large passe à proximité de pas moins de six zones de guerre, en cours ou potentielles : Nagorno-Karabakh (une enclave arménienne en Azerbaïdjan), la Tchétchènie et le Daguestan (deux régions russes assiégées), l’Ossétie du Sud et l’Abkhazie (où s’est déroulée en 2008 la guerre entre la Russie et la Géorgie) et le Kurdistan turc.

D’un point de vue purement économique, le BTC n’avait aucun sens. Un pipeline « BTK », partant de Bakou et passant par Téhéran pour rejoindre l’Ile de Kharg en Iran, aurait pu être construit pour, toutes proportions gardées, presque rien – et il aurait eu l’avantage de contourner à la fois la Géorgie corrompue par la mafia et l’Anatolie orientale instable peuplée de Kurdes. Cela aurait été le moyen réellement bon marché d’acheminer vers l’Europe le pétrole et le gaz de la Caspienne.

Cette « Nouvelle Partie Formidable » a fait en sorte que ce ne soit pas le cas et beaucoup de choses ont fait suite à cette décision. Même si Moscou n’a jamais prévu d’occuper la Géorgie à long terme dans sa guerre de 2008 ou de prendre le contrôle du pipeline BTC qui traverse désormais son territoire, l’analyste pétrolier d’Alfa Bank, Konstantin Batounine, a fait remarquer l’évidence : en coupant brièvement le flux pétrolier du BTC, les soldats russes ont fait comprendre très clairement aux investisseurs mondiaux que la Géorgie n’était pas un pays fiable pour le transit énergétique. Autrement dit, les Russes ont tourné en dérision le monde selon Zbig.

Pour sa part, l’Azerbaïdjan représentait jusqu’à récemment la véritable réussite dans la version étasunienne du Pipelineistan. Conseillé par Zbig, Bill Clinton a littéralement « volé » Bakou du « voisinage proche » de la Russie, en encourageant le BTC et les richesses qui en couleraient. Cependant, à présent, avec le message de la guerre russo-géorgienne qui s’est immiscé, Bakou s’autorise à nouveau à se laisser séduire par la Russie. Pour compléter le tableau, le président de l’Azerbaïdjan, Ilham Aliyev, ne peut pas piffer le président bravache de la Géorgie, Mikhaïl Saakachvili. Ce n’est guère surprenant. Après tout, les manœuvres militaires irréfléchies de Saakachvili ont causé à l’Azerbaïdjan la perte d’au moins 500 millions de dollars lorsque le BTC a été fermé durant la guerre.

Le blitzkrieg de séduction russe pour l’énergie est également concentré comme un laser sur l’Asie Centrale. (Nous en parlerons plus en détail dans le prochain épisode du Pipelineistan.) Cette séduction tourne autour de l’offre d’acheter le gaz kazakh, ouzbek et turkmène aux prix européens, au lieu des prix précédents russes beaucoup plus bas. Les Russes, en fait, ont fait la même proposition aux Azéris : donc, à présent, Bakou négocie un accord impliquant plus de capacité pour le pipeline Bakou-Novorossisk, qui se dirige vers les frontières russes de la Mer Noire, tout en envisageant de pomper moins de pétrole pour le BTC.

Obama a besoin de comprendre les graves implications de tout ceci. Moins de pétrole azéri pour le BTC – sa pleine capacité est d’un million de barils par jour, essentiellement acheminés vers l’Europe – signifie que ce pipeline pourrait faire faillite, ce qui est exactement ce que veut la Russie.

En Asie Centrale, quelques-uns des plus gros enjeux tournent autour du champ pétrolier monstre de Kashagan situé dans le « léopard des neiges » d’Asie Centrale, le Kazakhstan, le joyaux absolu de la couronne de la Caspienne, avec des réserves atteignant 9 milliards de barils. Comme d’habitude au Pipelineistan, tout se résume à savoir quels itinéraires livreront le pétrole de Kashagan au monde après le démarrage de la production en 2013. Cela est bien sûr annonciateur de la Guerre Liquide. Le Président Kazakh Nursultan Nazarbayev, rusé comme un renard, aimerait utiliser le Consortium du Pipeline de la Caspienne (CPC) contrôlé par les Russes pour déverser le brut de Kashagan vers la Mer Noire.

 Dans ce cas, les Kazakhs détiendraient tous les atouts. La façon dont le pétrole s’écoulera depuis Kashagan décidera de la vie ou de la mort du BTC – autrefois vanté par Washington comme l’échappatoire occidentale ultime de la dépendance sur le pétrole du Golfe Persique.

 Alors, bienvenue au Pipelineistan ! Que nous l’aimions ou pas, en période faste comme en période difficile, nous pouvons raisonnablement parier que nous allons tous devenir des touristes de Pipeline. Donc, suivez le flux ! Apprenez les acronymes cruciaux, gardez un œil sur ce qui va arriver à toutes ces bases étasuniennes dans tous les fiefs pétroliers de la planète, observez là où les pipelines seront construits et faîtes de votre mieux pour garder l’œil sur la prochaine série d’accords énergétiques monstres chinois et des coups fabuleux du Russe Gazprom.

 Et, pendant que vous y êtes, considérez ceci comme juste la première carte postale envoyée de notre tournée au Pipelineistan. Nous reviendrons (comme disait Terminator). Pensez à cela comme à une porte s’ouvrant sur un futur dans lequel où et vers qui ce qui s’écoulera pourrait s’avérer être la question la plus importante sur la planète.

Pepe Escobar
Asia Time Online,
1/04/09
article original : "Liquid war: Welcome to Pipelineistan"
Traduction : JFG pour Questions critiques

Pepe Escobar est le correspondant itinerant de l’Asia Times Online et analyste pour Real News. Cet article est tiré de son nouveau livre, Obama does Globalistan. Il est également l’auteur de Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War [Globalistan : Comment le Monde Globalisé se Dissout dans la Guerre Liquide] (Nimble Books, 2007) et de Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge [Le Blues de la Zone Rouge : un instantané de Bagdad durant le Surge - la montée en puissance de l’armée américaine].

Notes :
 
[1] Voir "PNAC, le programme pour un nouveau siècle américain"

[2]OCS :
http://
www.polemia.com/article.php?id=1722
http://
www.polemia.com/article.php?id=1267
http://
www.polemia.com/article.php?id=951

[3] camp Bondsteel :
http://
www.polemia.com/article.php?id=1634
http://
www.polemia.com/article.php?id=1747

Pepe Escobar

jeudi, 30 avril 2009

Pakistan puede perder control de su arma nuclear

Pakistán puede perder control de su arma nuclear

Pakistán puede perder el control de su arma nuclear. El movimiento Talibán que antes operaba en el vecino Afganistán toma bajo su control cada vez más comarcas del país, monta allí tribunales de shariat e ignora a los funcionarios del Gobierno central. Pero lo fundamental consiste en que sus “militantes” se encuentran a 60 km de Islamabad. Y su toma es cuestión de tiempo, de continuar la situación de hoy.

La parte de Pakistán conocida como la Zona Tribal: el valle de Svat y el Distrito de Buner, está de hecho ocupada por talibes. Las autoridades centrales se muestran complacientes con ello, esperando evitar así la violencia. La secretaria de Estado de EEUU Hillary Clinton en su entrevista del domingo al canal de TV Fox calificó lo que acaece en Pakistán de peligro mortal para el mundo. Manifestó inquietud frente a la posibilidad de que las armas nucleares vayan a parar a manos de los talibes. Aquí es oportuno recordar que Washington por enésima vez “recoge” los frutos de su política anterior. Pakistán creó su arma nuclear en connivencia con EEUU. Islamabad ha sido siempre el baluarte de la influencia estadounidense en la región y la Casa Blanca prefería hacer la vista gorda a sus ambiciones nucleares. Ahora las llaves de los arsenales nucleares pueden caer en manos de los terroristas. Y hecho curioso: terroristas pagados, armados y adiestrados en su tiempo por los servicios de inteligencia de EEUU y de Pakistán para que hicieran frente a la presencia rusa en Afganistán. ¡Vaya qué carambola ha salido! ¿Acaso tenía sentido multiplicar monstros para luego combatirlos?


Pakistán tropieza de hecho con la eventualidad de perder su estateidad. Como es lógico, esto preocupa mucho a Washington, que, en el decir de la señora Clinton, no puede admitirlo. De ahí la presión que ejerce EEUU sobre las autoridades centrales: recuperar el control en las provincias perdidas. Los expertos coinciden en que la Casa Blanca incluso cerrará los ojos ante un posible golpe militar en Pakistán. He aquí la opinión emitida a La Voz de Rusia por Vladimir Sotnikov, especialista en seguridad internacional:

EEUU no admitirán que pierdan Pakistán y me parece que EEUU posean un plan de acción al respecto junto con el ejército pakistaní, o bien independiente. Me parece que en los próximos tiempos pueda producirse la toma de Islamabad. A mi entender, las fuerzas armadas pakistaníes, al derrocar al Gobierno de Zardari, rechazarán a los talibes junto con EEUU o sin ellos tratarán de sobreponerse al Talibán.

La realidad objetiva muestra que la coalición militar internacional en el vecino Afganistán, bajo la égida de EEUU, es la única fuerza en la región capaz de hacer frente a la expansión del terrorismo. Moscú apoya a la coalición, habiendo abierto sus corredores aéreos para su abastecimiento.- En todo caso, la brega contra el extremismo islamita no tiene solución rápida, y su expansión puede ser contrarrestada tan solo por esfuerzos de la comunidad mundial.

Extraído de La Voz de Rusia.

~ por LaBanderaNegra en Abril 27, 2009.

mardi, 28 avril 2009

Trois livres pour comprendre le Japon aujourd'hui

Trois livres pour comprendre le Japon d'aujourd'hui

Ex: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Signe de la fascination et de la curiosité que suscite le Pays du soleil levant en Europe, plusieurs livres ayant pour objectif d'expliquer le Japon ont récemment été publiés :

Enigmatique Japon, d'Alan Macfarlane, est le fruit de la rencontre d'un anthropologue britannique réputé avec un pays qui lui est absolument étranger. "J'ignorais presque tout du Japon avant notre premier séjour. Je savais que c'était un chapelet d'îles situées à l'est de la Chine. Je me figurais plus ou moins une Chine en miniature" écrit l'auteur. La rencontre avec cet archipel oriental déboussole l'universitaire, qui a le sentiment, comme Alice aux pays des merveilles, de passer de l'autre côté du miroir. "J'étais plein de certitudes, de confiance et de présomption infondées sur mes propres catégories de perception du monde. Je ne pensais même pas que le Japon risquait de les bousculer" écrit-il. En un peu plus de 200 pages, il se fonde sur ses expériences personnelles, passées au crible de la méthode universitaire et anthropologique, pour déchiffrer l'énigme japonaise pour le lecteur.






L'Atlas du Japon de Philippe Pelletier propose plus de 120 cartes, sur l'histoire, la démographie, l'économie, l'urbanisation ou encore les relations extérieures de l'archipel. Le choix de la présentation cartographique permet de mettre en relief certains éléments caractéristiques du Japon d'aujourd'hui. Outre ses contraintes géographiques et l'héritage historique, les cartes claires, didactiques et bien documentées réalisées par Carine Fournier et Donatien Cassan mettent en avant les éléments qui font du Japon une société "post-moderne" : population vieillissante, hyper-urbanisation, forte tertiarisation de l'économie, etc... L'approche cartographique a également le mérite de faire ressortir certaines données, telles que les écarts sociaux ou la répartition géographique du vote, auxquelles le lecteur n'aurait pas nécessairement été sensible sans carte. L'ouvrage, riche en informations, satisfera quiconque est amené à étudier le Japon.






Enfin, comme son titre l'indique, Les Japonais de Karyn Poupée ne se focalise pas sur le pays mais sur ses habitants. Le livre permet de comprendre cette société, si intrigante aux yeux des étrangers et qui est devenue ce qu'elle est du fait de contraintes et d'une histoire particulière. L'auteur dit s'être lancée dans la rédaction du livre pour avoir trop lu par le passé de choses insensées, de clichés racoleurs ou, au contraire, de textes reflétant une fascination absolue sur les Japonais. Ici, les clichés ne sont pas niés, leurs fondements sont expliqués. L'auteur, qui connaît le Japon depuis 12 ans et y travaille en tant que journaliste pour l'Agence France Presse, réussit à expliquer les réalités socio-économiques du pays tout en les illustrant avec des éléments du vécu, des constats du quotidien, qui rendent le livre accessible à tous et prenant. Etoffé d'exemples concrets et parlants, l'ouvrage dense en informations revient sur l'histoire contemporaine du pays pour mieux nous expliquer son présent. L'auteur se fonde sur les spécificités, géographiques et culturelles, qui rendent le Japon si différent. Probablement parce qu'elle a pour métier de rendre accessible aux lecteurs de la presse la complexité japonaise, Karyn Poupée sait utiliser des exemples concrets et parlants pour montrer pourquoi et comment les Japonais sont comme ils sont. L'ouvrage devrait satisfaire tous ceux qui souhaitent comprendre les Japonais d'aujourd'hui. Il est enfin doté d'une qualité extrêmement rare pour un livre si riche en informations : il se lit avec le même plaisir que l'on aurait à parcourir un bon roman.

Alan Macfarlane, Enigmatique Japon, Ed. Autrement, 2009.

Philippe Pelletier, Atlas du Japon, Ed. Autrement, 2008.

Karyn Poupée, Les Japonais, Tallandier, 2008.

mardi, 07 avril 2009

Nouvelles concessions faites aux Turcs

Nouvelles concessions faites aux Turcs

Ex: http://www.insolent.fr/

090406Les historiens du futur retiendront peut-être l'image du président du Conseil italien téléphonant sur les bords du Rhin ce 4 mars au matin. Durant 32 minutes Silvio Berlusconi s'est ainsi entretenu à distance avec le premier ministre Erdogan. Scène d'autant plus émouvante et insolite que la Turquie se trouvait représentée à Strasbourg. Son président de la république Abdullah Gül figurait parmi les participants, en bonne place sur les photos et en bonne santé. Certains ont donc pu imaginer, mais je ne puis me résoudre à le croire, qu'il ne faisait office que de marionnette, sous les ordres de la confrérie islamique, dans laquelle il se trouverait subordonné à son dynamique camarade de parti.

On doit sans doute exprimer une certaine reconnaissance à la très efficace diplomatie italienne d'avoir su sortir de l'impasse l'Europe et l'occident, mais aussi le bon déroulement de la cérémonie de Strasbourg.

La non-moins efficace diplomatie turque a su accepter le principe d'une nomination de M. Rasmussen. Cela ne lui coûtera rien. Reste cependant à savoir, en contrepartie, quelles dispositions ultérieures, elle a entrepris d'extorquer à ses partenaires. Confrontée à des négociateurs collectifs, divisés, autrement moins redoutables que le chef du gouvernement de Rome, elle ne manquera jamais de ressources. Avec 520 000 hommes, elle dispose de la plus grosse armée de terre de l'Otan. Et bien que les 130 000 soldats turcs escomptés par les stratèges anglo-américains ait fait défaut en Mésopotamie en raison du vote négatif du Majlis d'Ankara en mars 2003, ce potentiel d'intervention demeure séduisant auprès des États-Unis. Les Européens ont encore démontré à Strasbourg, au contraire, malgré toute leur bonne volonté, qu'ils ne peuvent leur faire numériquement concurrence sur le terrain miné d'une plus grande implication en Afghanistan.

L'AFP et Le Monde en ligne à 10 h 24 ce 5 avril 2009 dressaient ainsi le tableau des conditions drastiques que cherche à imposer Ankara en échange de la nomination de Rasmussen au secrétariat général de l'Otan.

Reprenons-les point par point :

1° Ankara aurait obtenu en premier lieu l'assurance que la chaîne de télévision Roj TV, tribune des rebelles kurdes du Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK), soit prochainement interdite d'émettre depuis le Danemark.

2° Ankara aurait, d'autre part, obtenu que M. Rasmussen "adresse au monde musulman un message positif par rapport à la crise des caricatures". Le quotidien à grand tirage Hürriyet évoque pour sa part des "excuses" prochaines de M. Rasmussen au monde musulman. Le journal populaire Aksam croyait savoir que de telles "excuses" pourraient même être présentées lors du sommet de ce qu'on appelle pompeusement "l'Alliance des civilisations".

3° Ankara aurait enfin obtenu la promesse que des Turcs seraient nommés à des postes clés dans l'appareil pratique de l'Otan. Un Turc devrait ainsi devenir l'adjoint du secrétaire général, un autre devrait représenter l'Alliance atlantique en Afghanistan et un troisième devrait être nommé responsable du désarmement.

Certes, on pourra juger sévèrement, ou au contraire comprendre, sinon applaudir, que des compromis de cette nature aient pu intervenir entre l'alliance atlantique et son partenaire d'Asie mineure.

Ainsi par exemple, s'agissant du PKK, cette petite armée se trouve désormais officiellement combattue par les autorités kurdes d'Irak. Aussi bien l'Union patriotique du Kurdistan de Jalal Talabani qui assume à Bagdad depuis 2005 la présidence fédérale du pays, que le Parti Démocratique du Kurdistan de Massoud Barzani, qui a pris le contrôle de la région autonome du nord, la rejettent. On voit donc assez mal comment l'OTAN, l'Europe ou le Danemark accorderaient dès lors un soutien à une organisation qui se réclame par ailleurs officiellement du marxisme-léninisme.

Donner un message positif en direction du "monde musulman" : mais quel pays engagé dans la guerre d'Afghanistan ne s'y est-il pas préparé d'une manière ou d'une autre ?

Il existe d'ailleurs de nombreuses manières d'entendre ce concept de "message positif".

On pourrait considérer comme tel, et même comme un "message extrêmement fort et positif", montrant la confiance que nous investissons dans la faculté d'émancipation et de progrès de ces nations, le fait pour citer quelques exemples :
- d'appeler tous les pays, y compris par conséquent ceux du "monde musulman" à respecter les droits élémentaires de l'enfance en interdisant de pratiques telles que l'enseignement forcé du Coran par cœur, même lorsqu'ils ne parlent pas l'arabe, et la mendicité imposés aux petits garçons des madrassas ;
- d'arracher les signes humiliants de la condition féminine appelés mensongèrement "voiles" ;
- de mettre un terme aux pratiques esclavagistes que, sous couvert de religion, certains pays du Golfe imposent encore aux Noirs d'Afrique.

Certains vont même plus loin. Après la révolution de velours de 1989 en Tchécoslovaquie on demandait ainsi au nouveau président tchèque Vaclav Havel quel geste fort il se proposait d'accomplir en direction du tiers-monde. Il semble, 20 ans après, que sa réponse mérite réflexion : car, a-t-il répondu, "nous avons fait quelque chose pour le tiers-monde, nous avons reconnu l'État d'Israël !" Ce message positif à l'égard de ses frères musulmans et anciens sujets de l'empire et du califat ottomans, les Arabes, la Turquie a su, elle aussi, le délivrer en son temps. Dès 1949 elle reconnaissait le jeune État sioniste, et encore en 1996 elle signait avec lui un important accord stratégique. Cela ne semble pas l'empêcher d'occuper depuis 2004 un "poste clef", celui de secrétaire général, au sein de l'Organisation de la conférence islamique en la personne d'Ekmeleddin Ihsanoglun.

Mais d'autres formes de messages, des signes de faiblesse, particulièrement peu appropriés dans cette famille de peuples, peuvent hélas être délivrés, comme, par exemple, Barack Obama dans sa déclaration introductive au sommet Europe-Etats-Unis, le 5 mars à Prague :
"Les Etats-Unis et l'Europe doivent considérer les musulmans comme des amis, des voisins et des partenaires pour combattre l'injustice, l'intolérance et la violence, et forger une relation fondée sur le respect mutuel et des intérêts communs.

"Aller vers une entrée de la Turquie dans l'Union européenne constituerait un signe important de votre engagement dans cette direction et assurerait que nous continuons à ancrer la Turquie fermement en Europe"
.On ne peut donc qu'approuver le président français Nicolas Sarkozy d'avoir rejeté clairement, publiquement et immédiatement, dans deux interventions télévisées à Prague d'abord, puis sur TF1,le principe même d'une telle déclaration nord-américaine :
"S'agissant de l'Union européenne, a-t-il rappelé, c'est aux pays membres de l'Union européenne de décider".
Ces excellents et fermes propos vont sans doute tendre à replacer cette question au cœur du débat européen, et probablement aussi, de cette campagne électorale qui s'annonçait un peu terne en vue du scrutin de juin.

On regrettera d'autant plus une autre concession faite de manière juridiquement souveraine par Paris et sans aucune relation avec la négociation du 4 mars.

En marge de la réunion de l'Otan à Strasbourg, notre ministre des Affaires étrangères Kouchner rencontrait dès le 2 mars son homologue turc M. Ali Babacan. Le contexte explique en partie l'information qui va suivre. À ce jour je n'en ai pas encore retrouvée la trace via aucune source habituelle de l'information parisienne mais seulement sur l'excellent site anglophone du quotidien conservateur de Turquie Zaman Today.

En effet jusqu'ici la France bloquait l'entrée de la gendarmerie turque dans la Force de gendarmerie européenne (Eurogendfor ou FGE) créée en septembre 2004 et dont le siège est à Vicenza, où, dirigée par le colonel Giovanni Truglio depuis juin 2007, elle est l'hôte de l'arme prestigieuse des Carabinieri italiens. Kouchner, au nom de la France, vient de donner le feu vert à l'entrée des Turcs dans cette communauté.

On peut comprendre que la gendarmerie d'Ankara, dont les exploits de Sisirlik restent présents dans toutes les mémoires, l'impliquant dans la protection des trafics de drogue, illustrée dans le complot d'Ergenekon via son ancien patron le général Sener Eryugur, participe aux opérations d'Afghanistan au titre de l'Otan puisqu'elle appartient à cette alliance.

On comprend moins bien qu'elle puisse y figurer au titre de l'Europe.

JG Malliarakis

jeudi, 02 avril 2009

Pékin soutient Moscou dans sa recherche d'une alternative au dollar

Crise: Pékin soutient Moscou dans sa recherche d’alternatives au dollar

fin-du-dollar

Le président de la Banque populaire de Chine Zhou Xiaochuan appuie l’initiative russe visant à créer une monnaie de réserve alternative au dollar américain, est-il indiqué dans un article mis en ligne sur le site internet de la banque.

“Le système financier international doit avoir une monnaie de réserve supranationale qui ne serait pas liée à un pays et resterait stable à long terme”, lit-on dans l’article de M.Xiaochuan.

Le banquier soutient la proposition de Moscou de charger le Fonds monétaire international (FMI) d’étudier la création d’une monnaie de réserve supranationale. Selon la Russie, les droits de tirage spéciaux pourraient jouer ce rôle, ceux-ci constituant actuellement une monnaie de réserve pour certains pays.

Dans le même temps, il a reconnu que la mise en place d’une nouvelle monnaie de réserve était “un projet de longue haleine”, la communauté internationale devant faire preuve de perspicacité et de fermeté pour le mener à bien.

A l’heure actuelle, il convient d’améliorer “la gestion des risques dans le cadre du système financier existant”, a conclu le président de la banque.


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

URL to article: http://fr.altermedia.info/general/crise-pekin-soutient-moscou-dans-sa-recherche-dalternatives-au-dollar_21649.html

vendredi, 20 mars 2009

Eurasisme et atlantisme: quelques réflexions intemporelles et impertinentes

iran-turan.jpg

 

 

Robert STEUCKERS:

Eurasisme et atlantisme: quelques réflexions intemporelles et impertinentes

 

Préface à un ouvrage de Maître Jure Vujic (Zagreb, Croatie)

 

Il y a plusieurs façons de parler de l’idéologie eurasiste, aujourd’hui, après l’effondrement du bloc soviétique et la disparition du Rideau de Fer: 1) en parler comme s’il était un nouvel avatar du soviétisme; 2) en faisant référence aux idéologues russes de l’eurasisme des années 20 et 30, toutes tendances idéologiques confondues; 3) en adoptant, par le truchement d’un eurasisme synthétique, les lignes de force d’une stratégie turco-mongole antérieure, qui deviendrait ainsi alliée à la spécificité russe; un tel eurasisme est finalement une variante du pantouranisme ou du panturquisme; 4) faire de l’idéologie eurasiste le travestissement d’un traditionalisme révolutionnaire, reposant in fine sur la figure mythique du “Prêtre Jean”, évoquée par René Guénon; cet eurasisme-là prendrait appui sur deux pôles religieux: l’orthodoxie russe et certains linéaments de l’islam centre-asiatique, mêlant soufisme et chiisme, voire des éléments islamisés du chamanisme d’Asie centrale. Ces quatre interprétations de l’eurasisme sont certes séduisantes sur le plan intellectuel, sont, de fait, des continents à explorer pour les historiens qui focalisent leurs recherches sur l’histoire des idées, mais d’un point de vue realpolitisch européen, elles laissent le géopolitologue, le stratège et le militaire sur leur faim.

 

L’eurasisme, dans notre optique, relève bien plutôt d’un concept géographique et stratégique: il tient compte de la leçon de John Halford Mackinder qui, en 1904, constatait que l’espace centre-asiatique, alors dominé par la Russie des Tsars, était inaccessible à la puissance maritime anglaise, constituait, à terme, un môle de puissance hostile aux “rimlands”, donc, du point de vue britannique, une menace permanente sur l’Inde. L’eurasisme des géopolitologues rationnels, s’inscrivant dans le sillage de John Halford Mackinder, n’est pas tant, dans les premières expressions de la pensée géopolitique, l’antipode d’un atlantisme, mais l’antipode d’une puissance maritime centrée sur l’Océan Indien et possédant le sous-continent indien. Si l’Angleterre est, dès l’époque élisabéthaine, une puissance nord-atlantique en passe de conquérir toute l’Amérique du Nord, au faîte de sa gloire victorienne, elle est essentiellement une thalassocratie maîtresse de l’Océan Indien. La clef de voûte de son empire est l’Inde, qui surplombe un “arc” de puissance dont les assises se situent en Afrique australe et en Australie et dont les points d’appui insulaires sont les Seychelles, l’Ile Maurice et Diego Garcia.

 

Le premier couple de concepts antagonistes en géopolitique n’est donc pas le dualisme eurasisme/atlantisme mais le dualisme eurasisme/indisme. L’atlantisme ne surviendra qu’ultérieurement avec la guerre hispano-américaine de 1898, avec le développement de la flotte de guerre américaine sous l’impulsion de l’Amiral Alfred Thayer Mahan, avec l’intervention des Etats-Unis dans la première guerre mondiale, avec le ressac graduel de l’Angleterre dans les années 20 et 30 et, enfin, avec l’indépendance indienne et la relative neutralisation de l’Océan Indien. Qui ne durera, finalement, que jusqu’aux trois Guerres du Golfe (1980-1988, 1991, 2003) et à l’intervention occidentale en Afghanistan suite aux “attentats” de New York de septembre  2001.

 

Route de la Soie et “Greater Middle East”

 

Avec l’indépendance des anciennes républiques musulmanes de l’ex-URSS, la Russie cesse paradoxalement d’être une véritable puissance eurasienne, car elle perd les atouts territoriaux de toutes ses conquêtes du XIX° siècle, tout en redécouvrant le punch de l’idéologie eurasiste. Donc la fameuse “Terre du Milieu”, inaccessible aux marines anglo-saxonnes, comprenant le Kazakhastan, le Turkménistan, l’Ouzbékistan, le Tadjikistan et le Kirghizistan, est théoriquement indépendante de toute grande puissance d’Europe ou d’Asie. Un vide de puissance existe ainsi désormais en cette Asie centrale, que convoitent les Etats-Unis, la Chine, l’Iran et la Turquie, au nom de concepts tour à tour anti-russes, panasiatiques, panislamistes ou pantouraniens. Les Etats-Unis parlent tout à la fois, avec Zbigniew Brzezinski, de “Route de la Soie” (“Silk Road”), et, avec d’autres stratégistes, de “Greater Middle East”, comme nouveau débouché potentiel pour une industrie américaine enrayée dans ses exportations en Europe, avec l’émergence d’une UE à 75% autarcique, et en Amérique ibérique avec l’avènement du Mercosur et d’autres regroupements politico-économiques.

 

Vu la population turcophone des anciennes républiques musulmanes d’Asie centrale, cet espace, hautement stratégique, ne partage plus aucune racine, ni culturelle ni linguistique, avec l’Europe ou avec la Russie. Un barrage turcophone et islamisé s’étend de l’Egée à la Muraille de Chine, empêchant le regroupement de puissances à matrice européenne: l’Europe, la Russie, la Perse et l’Inde. La conscience de ce destin raté n’effleure même pas l’immense majorité des Européens, Russes, Perses et Indiens.

 

L’idée-force qui doit, tout à la fois, ressouder l’espace jadis dominé par les Tsars, de Catherine II à Nicolas II, et donner une conscience historique aux peuples européens, ou d’origine européenne, ou aux peuples d’aujourd’hui qui se réfèrent à un passé historique et mythologique européen, est celle d’un eurasisme indo-européanisant. Cet eurasisme trouve son origine dans la geste des vagues successives de cavaliers et de charistes, dites “proto-iraniennes”, parties de l’ouest de l’Ukraine actuelle pour se répandre en Asie centrale entre 1800 et 1550 avant J. C. Deux historiens et cartographes nous aident à comprendre cette dynamique spatiale, à l’aurore de notre histoire: le Britannique Colin McEvedy (1) et le Suisse Jacques Bertin (2).

 

L’aventure  des cavaliers indo-européens dans la steppe centre-asiatique

 

Pour McEvedy, la césure dans le bloc indo-européen initial, dont le foyer primordial se situe en Europe centrale, survient vers 2750 av. J. C. quand le groupe occidental (cultures de Peterborough et de Seine-Oise-Marne) opte pour un mode de vie principalement sédentaire et le groupe oriental, de l’Elbe à la Mer d’Aral, pour un mode de vie semi-nomade, axé sur la domestication du cheval. Bien que la linguistique contemporaine opte pour une classification des langues indo-européennes plus subtile et moins binaire, reposant sur la théorie des ensembles, McEvedy retient, peu ou prou, l’ancienne distinction  entre le groupe “Satem” (oriental: balto-slave, aryen-iranien-avestique, aryen-sanskrit-védique) et le groupe “Centum” (occidental: italique, celtique, germanique), selon le vocable désignant le chiffre “100” dans ces groupes de langues. Pour McEvedy, à cette même époque (-2750), un bloc hittite commence à investir l’Asie Mineure et l’Anatolie; le groupe tokharien, dont la langue est “indo-européenne occidentale”, s’installe en amont du fleuve Syr-Daria, en direction de la “Steppe de la Faim” et à proximité des bassins du Sari-Sou et du Tchou. Récemment, l’archéologie a exhumé des momies appartenant aux ressortissants de ce peuple indo-européen d’Asie centrale et les a baptisées “Momies du Tarim”. A cette époque, les peuples indo-européens orientaux occupent toute l’Ukraine, tout l’espace entre Don et Volga, de même que la “Steppe des Kirghiz”, au nord de la Caspienne et de la Mer d’Aral. De là, ils s’élanceront vers 2250 av. J. C. au delà de l’Aral, tandis que les Tokhariens entrent dans l’actuel Sinkiang chinois et dans le bassin du Tarim, à l’époque assez fertile. La “Terre du Milieu” de John Halford Mackinder a donc été d’abord indo-européenne avant de devenir altaïque et/ou turco-mongole. A partir de 1800 av. J. C., ils font mouvement vers le Sud et pénètrent en Iran, servant d’aristocratie guerrière, cavalière et chariste, à des peuples sémitiques ou élamo-dravidiens. Vers 1575 av. J. C., ils encadrent les Hourrites caucasiens lors de leurs conquêtes au Proche-Orient et en Mésopotamie, pénètrent dans le bassin de l’Indus et dans le Sinkiang et le Gansou.

 

Ces peuples domineront les steppes centre-asiatiques, des Carpathes à la Chine jusqu’à l’arrivée des Huns d’Attila, au IV° siècle de l’ère chrétienne. Cependant, les empires sédentaires et urbanisés du “rimland”, pour reprendre l’expression consacrée, forgée en 1904 par Mackinder, absorberont très tôt le trop plein démographique de ces cavaliers de la steppe: ce seront surtout les Perses, Parthes et Sassanides qui les utiliseront, de même que les Grecs qui auront des mercenaires thraces et scythes et, plus tard, les Romains qui aligneront des cavaliers iazyges, roxolans et sarmates. Cette réserve militaire et aristocratique s’épuisera progressivement; pour Jacques Bertin, l’expansion vers l’Océan Pacifique de ces peuples cavaliers sera contrecarrée  par des bouleversements climatiques et un assèchement graduel de la steppe, ne permettant finalement plus aucune forme, même saisonnière, de sédentarité. A l’Est, le premier noyau mongol apparaît entre 800 et 600 av. J. C., notamment sous la forme de la culture dite “des tombes à dalles”.

 

Le reflux vers l’ouest

 

Les peuples cavaliers refluent alors principalement vers l’Ouest, même si les Yuezhi (on ne connaît plus que leur nom chinois) se heurtent encore aux Mongols et à la Chine des Qin. La pression démographique des Finno-Ougriens (Issédons) et des Arimaspes de l’Altaï et la détérioration générale des conditions climatiques obligent les Scythes à bousculer les Cimmériens d’Ukraine. Quelques éléments, après s’être heurtés aux Zhou chinois, se seraient retrouvés en Indochine, à la suite de ce que les archéologues nomment la “migration pontique”. De 600 à 200 av. J.C., la culture mongole-hunnique des “tombes à dalles” va accroître, graduellement et de manière non spectaculaire, son “ager” initial. Vers –210, les tribus mongoles-hunniques forment une première confédération, celle des Xiongnu, qui font pression sur la Chine mais bloquent définitivement l’expansion des cavaliers indo-européens (Saces). C’est là que commence véritablement l’histoire de l’Asie mongole-hunnique. Vers 175 av. J.C., les Xiongnu dirigés par Mao-Touen, véritables prédécesseurs des Huns, s’emparent, de tout le Gansu, chassent les Yuezhi indo-européens et occupent la Dzoungarie. La vaste région steppique entourant le Lac Balkach cesse d’être dominée par des peuples indo-européens. La Chine intervient et bat la Confédération des Xiongnu, donnant aux empires romain et parthe un répit de quelques centaines d’années.

 

Le potentiel démographique indo-européen des steppes se fonde dans les empires périphériques, ceux du “rimland”: les Sarmates de l’Ouest, connus sous les noms de Roxolans et de Iazyges s’installent en Pannonie et, après un premier choc avec les Légions de l’Urbs, deviendront des “foederati” et introduiront les techniques de la cavalerie dans l’armée romaine et, partant, dans toutes les régions de l’Empire où ils seront casernés. L’épopée arthurienne découlerait ainsi d’une matrice sarmate. Les Alains, ancêtres des Ossètes, entrent en Arménie. Les Yuezhi envahissent l’Inde et y fondent l’Empire Kusana/Kouchan. De l’an 1 à l’an 100, trois blocs  impériaux de matrice indo-européenne se juxtaposent sur le rimland eurasien, face aux peuples hunniques désorganisés par les coups que lui ont porté les armées chinoises de Ban Chao, qui poussent jusqu’en Transoxiane. Nous avons l’Empire romain qui inclut dans ses armées les “foederati” sarmates. Ensuite, l’Empire perse qui absorbe une partie des peuples indo-européens de la steppe centre-asiatique, dont les Scythes, qu’il fixera dans la province du Sistan. Enfin l’Empire kouchan, sous l’impulsion des tribus yuezhi réorganisées, englobe toutes les terres de l’Aral au cours moyen du Gange, l’Afghanistan et le Pakistan actuels et une vaste portion de l’actuel Kazakhstan.

 

Les Huns arrivent dans l’Oural et dans le bassin de la Volga

 

Au cours du II° siècle de l’ère chrétienne, les Xianbei, issus des forêts, deviennent le peuple dominant au nord de la Mandchourie, provoquant, par la pression qu’ils exercent sur leur périphérie occidentale, une bousculade de peuples, disloquant les restes des Xiongnu qui, d’une part, entrent en Chine, et d’autre part, se fixent en Altaï, patrie des futurs peuples turcs (les “Tujue” des chroniques chinoises). Les Huns arrivent dans l’Oural, approchent du bassin de la Volga et entrent ainsi dans les faubourgs immédiats du foyer territorial originel des peuples indo-européens que l’archéologue allemand Lothar Kilian situe du Jutland au Don, les peuples préhistoriques et proto-historiques se mouvant sur de vastes territoires, nomadisme oblige. Thèse qu’adopte également Colin McEvedy.

 

En 285, les derniers Tokhariens font allégeance aux empereurs de Chine. Sassanides zoroastriens et Kouchans bouddhistes s’affrontent, ce qui conduit au morcellement de l’ensemble kouchan et, ipso facto, à la fragilisation de la barrière des Empires contre les irruptions hunniques venues de la steppe. Chahpour II, Empereur perse, affronte les Romains et les restes des Kouchans. L’Empereur Julien meurt en Mésopotamie en 373 face aux armées sassanides. Dans la patrie originelle des peuples hunniques-mongols, les Ruan Ruan bousculent les Xianbei qui refluent vers l’ouest, bousculant les Turcs, ce qui oblige les Huns à franchir la steppe sud-ouralienne et à se heurter en 375 aux Alains et aux Goths. Le glas de l’Empire romain va sonner. Les Huns ne seront arrêtés qu’en Champagne en 451 (Bataille des Champs Catalauniques). Les Kouchans, désormais vassaux des Sassanides, doivent céder du terrain aux Hephtalites hunniques. Les Tokhariens se soumettent aux Gupta d’Inde.

 

D’Urbain II à l’échec de la huitième Croisade

 

La chute de l’Empire romain, les débuts chaotiques de l’ère médiévale signalent un ressac de l’Europe, précisément parce qu’elle a perdu l’Asie centrale, le contact avec la Perse et la Chine. L’émergence de l’islam va accentuer le problème en donnant vie et virulence à la matrice arabique des peuples sémitiques. L’invasion de l’Anatolie byzantine par les Seldjouks au XI° siècle va provoquer une première réaction et enclencher une guerre de près de 900 ans, brièvement interrompue entre la dernière guerre de libération balkanique en 1913 et l’ère de la décolonisation. Le pape Urbain II, dans son discours de Clermont-Ferrand (1095) destiné à galvaniser la noblesse franque pour qu’elle parte en croisade, évoque nettement “l’irruption d’une race étrangère dans la Romania”, prouvant que l’on raisonnait encore en terme de “Romania”, c’est-à-dire d’impérialité romaine, cinq ou six cents ans après la chute de l’Empire romain d’Occident. En 1125, Guillaume de Malmesbury, dans sa “Gesta Regum”, déplore que la “chrétienté”, donc l’Europe, ait été chassée d’Asie et d’Afrique et que, petite en ses dimensions, elle est constamment harcelée par les Sarazins et les Turcs, qui veulent l’avaler toute entière. Les propos de Guillaume de Malmesbury expriment fort bien le sentiment d’encerclement que ressentaient les Européens de son époque, un sentiment qui devrait réémerger aujourd’hui, où les peuples de la périphérie ne cachent pas leur désir de grignoter notre territoire et/ou de l’occuper de l’intérieur par vagues migratoires ininterrompues, en imaginant que notre ressac démographique est définitif et inéluctable.

 

L’épopée des Croisades ne s’achève pas par l’échec total de la huitième croisade, prêchée par Urbain IV en 1263 et où meurt Saint Louis (1270). La chute d’Acre en 1291 met fin aux Etats latins d’Orient: seul ultime sursaut, la prise de Rhodes en 1310, confiée ensuite aux Hospitaliers. Détail intéressant: en 1274, Grégoire X, successeur d’Urbain IV, tentera en vain d’unir les empires du rimland en un front unique: les Mongols de Perse, les Byzantins et les Européens catholiques (3). Les guerres contre les Ottomans à partir du XIV° siècle et le fiasco de Nicopolis en 1396, à la suite de la défaite serbe du Champs des Merles en 1389, sont des guerres assimilables à des croisades. Le XV° siècle ne connaît pas de répit, avec la défaite européenne de Varna en 1444, prélude immédiat de la chute de Constantinople en 1453. Les XVI° et XVII° siècles verront l’affrontement entre l’Espagne d’abord, l’Autriche-Hongrie ensuite, et les Ottomans. La défaite des Turcs devant Vienne en 1683, puis la Paix de Karlowitz en 1699, scellent la fin de l’aventure ottomane et le début de l’expansion européenne. Ou, plus exactement, le début d’une riposte européenne, enfin victorieuse depuis les premiers revers des Saces.

 

Les Portugais contournent l’Afrique et arrivent dans l’Océan Indien

 

Deux réactions ont cependant été déterminantes: d’abord, l’avancée des Russes sur terre, séparant les Tatars de Crimée du gros de la Horde d’Or et du Khanat de Sibir par la conquête du cours de la Volga jusqu’à la Caspienne. Le réveil de la Russie indique le retour d’un peuple indo-européen dans l’espace steppique au sud de l’Oural et un reflux des peuples hunniques et mongols. La Russie poursuivra la conquête jusqu’au Pacifique en deux siècles. Puis reprendra toute l’Asie centrale. Nous avons affaire là au même eurasisme que celui des Proto-Iraniens à l’aurore de notre histoire. Ensuite, deuxième réaction, la conquête portugaise des eaux de l’Atlantique sud et de l’Océan Indien. Elle commence par une maîtrise et une neutralisation du Maroc, d’où disparaissent les Mérinides, remplacés par les Wattasides qui n’ont pas eu les moyens d’empêcher les Portugais de contrôler le littoral marocain. A partir de cette côte, les Portugais exploreront tout le littoral atlantique de l’Afrique avec Cabral et franchiront le Cap de Bonne Espérance avec Vasco de Gama (1498). Les Européens reviennent dans l’Océan Indien et battent la flotte des Mamelouks d’Egypte au large du Goujarat indien. La  dialectique géopolitique de l’époque consiste, peut-on dire, en une alliance de l’eurasisme européanisant des Russes et de l’indisme thalassocratique des Portugais qui prennent un Empire musulman du rimland en tenaille, une empire à cheval sur trois continents: l’Europe, l’Asie et l’Afrique. Le tandem Ottomans-Mamelouks disposait effectivement de fenêtres sur l’Océan Indien, via la Mer Rouge et le Golfe Persique et était en quelque sorte “hybride”, à la fois tellurique, avec ses armées de janissaires dans les Balkans, et thalassocratique par son alliance avec les pirates barbaresques de la côte septentrionale de l’Afrique et avec les flottes arabe et mamelouk de la Mer Rouge. Les Portugais ont donc réussi, à partir de Vasco de Gama à parfaire une manoeuvre d’encerclement maritime du bloc islamique ottoman et mamelouk, puisque les entreprises terrestres que furent les croisades et les expéditions malheureuses de Nicopolis et de Varna avaient échoué face à l’excellence de l’organisation militaire ottomane. Les héritiers d’Henri le Navigateur, génial précurseur du retour des Européens sur les mers du monde, ont réduit à néant, par leur audace, le sentiment d’angoisse des Européens devant l’encerclement dont ils étaient les victimes depuis l’irruption des Seldjouks dans cette partie de la Romania, qui était alors byzantine.

 

L’indisme thalassocratique et l’eurasisme tellurique/continental sont alors alliés, en dépit du fait que les Portugais sont catholiques et honorent le Pape de Rome et que les Russes se proclament les héritiers de Byzance, en tant que “Troisième Rome”, depuis la chute de Constantinople en 1453. Après les succès flamboyants d’Albuquerque entre 1503 et 1515 et la pénétration du Pacifique, les Portugais s’épuiseront, ne bénéficieront plus de l’apport de marins hollandais après le passage des Provinces-Unies des Pays-Bas au calvinisme ou au luthérisme; les Hollandais feront brillamment cavaliers seuls avec leur “Compagnie des Indes Orientales” fondée en 1602, s’empareront de l’Insulinde, deviendront pendant les deux tiers du XVII° une puissance à la fois “indiste” et atlantiste, et même partiellement pacifique vu leurs comptoirs au Japon, mais ne disposant que d’une base métropolitaine bien trop exigüe, ils cèderont graduellement le gros de leurs prérogatives aux Anglais dans l’Océan Indien et autour de l’Australie.

 

Le premier “atlantisme” ibérique: un auxiliaire du dessein “alexandrin”

 

L’atlantisme naît évidemment de la découverte des Amériques par Christophe Colomb en 1492. Mais l’objectif premier des puissances européennes, surtout ibériques, sera d’exploiter les richesses du Nouveau Monde pour parfaire un grand dessein romain et “alexandrin”, revenir en Méditerranée orientale, reprendre pied en Afrique du Nord, libérer Constantinople et ramener l’Anatolie actuelle dans le giron de la “Romania”. Le premier atlantisme ibérique n’est donc que l’auxiliaire d’un eurasisme “croisé” ibérique et catholique, allié à la première offensive de l’eurasisme russe, et portée par un dessein “alexandrin”, qui espère une alliance euro-perse. Une telle alliance aurait reconstitué le barrage des empires contre la steppe turco-hunnique, alors que les empires antérieurs, ceux de l’antiquité, se nourrissaient de l’énergie des cavaliers de la steppe quand ceux-ci étaient indo-européens.

 

L’atlantisme proprement dit, détaché dans un premier temps de tout projet continentaliste eurasien, nait avec l’avènement de la Reine Elisabeth I d’Angleterre. Elle était la fille d’Anne Boleyn, deuxième épouse d’Henri VIII et pion du parti prostestant qui avait réussi  à évincer la Reine Catherine, catholique et espagnole. Après la décollation d’Anne Boleyn, la jeune Elisabeth ne devait pas monter directement sur le trône à la mort de son père: son demi-frère Edouard VI succède à Henri VIII, puis, à la mort prématurée du jeune roi, sa demi-soeur Marie Tudor, fille de Catherine d’Espagne, qui déclenche une virulente réaction catholique, ramenant l’Angleterre, pendant cinq ans dans le giron catholique et l’alliance espagnole (1553-1558). Le décès prématuré de Marie Tudor amène Elisabeth I sur le trône en 1558; elle y restera jusqu’en 1603: motivée partiellement par l’ardent désir de venger sa mère, la nouvelle reine enclenche une réaction anti-catholique extrêmement violente, entraînant une cassure avec le continent qui ne peut être compensée que par une orientation nouvelle, anglicane et protestante, et par une maîtrise de l’Atlantique-Nord, avec la colonisation progressive de la côte atlantique, prenant appui sur la réhabilitation de la piraterie anglaise, hissée au rang de nouvelle noblesse après la disparition de l’ancienne aristocratie et chevalerie anglo-normandes suite à la Guerre des Deux Roses, à la fin du XV° siècle (4).

 

L’expansion anglaise en Amérique du Nord

 

C’est donc une vendetta familiale, un schisme religieux et une réhabilitation de la piraterie qui créeront l’atlantisme, assorti d’une volonté de créer une culture ésotérique différente de l’humanisme continental et catholique. Elle influence toujours, dans la continuité, les linéaments ésotériques de la pensée des élites anglo-saxonnes (5), notamment ceux qui, en sus du puritanisme proprement dit, sous-tendent la théologie politique américaine. Sous le successeur faible d’Elisabeth commence la colonisation de l’Amérique du Nord, par la fondation d’un premier établissement en 1607 à Jamestown. Elle sera complétée par l’annexion des comptoirs hollandais en 1664, dont “Nieuw Amsterdam” qui deviendra New York. L’inclusion du Delaware et des deux Carolines permet l’occupation de tout le littoral atlantique des futurs Etats-Unis. En 1670, l’Angleterre patronne la fondation de l’Hudson  Bay Company qui lui permet de coincer la “Nouvelle-France”, qui s’étend autour de Montréal, entre les Treize colonies et cette portion importante de l’hinterland du futur territoire canadien. Les liens avec l’Angleterre et l’immigration homogène et massive de Nord-Européens font de l’Atlantique-Nord un lac britannique et le socle d’une future puissance pleinement atlantique.

 

L’Angleterre en s’emparant de la totalité du Canada par le Traité de Paris en 1763 consolide sa puissance atlantique. Mais les jeux ne sont pas encore faits: lors de la révolte des “Treize colonies” en 1776, les flottes alliées de la France, de l’Espagne et de la Hollande volent au secours des insurgés américains et délogent les Anglais qui, dans les décennies suivantes, redeviendront une puissance principalement indienne, c’est-à-dire axée sur la maîtrise de l’Océan Indien. A partir du développement de la flotte russe sous Catherine la Grande, la Russie devient une menace pour l’Inde et surtout pour la route maritime qui y mène. Quand le Tsar Paul I propose à Napoléon Bonaparte de marcher de conserve, à travers la steppe, vers l’Inde, source de la puissance anglaise, en bousculant la Perse, Londres focalise toute son attention sur le maintien de son hégémonie sur le sous-continent indien et met en sourdine son ancienne vocation atlantique. C’est le “Grand Jeu”, le “Great Game” disent les historiens anglo-saxons, qui oppose, d’une part, une thalassocratie maîtresse de l’Océan Indien et de la Méditerranée, avec un appendice atlantique, comprenant le Canada comme réserve de matières premières et quelques comptoirs africains sur la route des Indes avant le creusement du Canal de Suez, et, d’autre part, une puissance continentale, tellurique, qui avance lentement vers le Sud et reconquiert la steppe d’Asie centrale sur les peuples turcs qui l’avaient enlevée aux Yuezhi, Saces, Tokhariens et Sarmates. Du coup, la Russie des Tsars devient l’héritière et la vengeresse de ces grands peuples laminés par les invasions hunniques, turques et mongoles. La Russie des Tsars développe donc un eurasisme indo-européanisant et se heurte à une thalassocratie qui a hérité de la stratégie de contournement des Portugais de la fin du XV° et du début du XVI° siècle. Mais cette stratégie de contournement est nouvelle, n’a pas de précédent dans l’histoire, ne s’identifie ni à l’Europe continentale ni à une Romania, disparue mais hissée au rang d’idéal indépassable, ni à un catholicisme qui en exprimerait l’identité sous des oripeaux chrétiens (comme dans le discours d’Urbain II ou le texte de Guillaume de Malmesbury). Le choc de cette thalassocratie et du continentalisme russe va freiner, enrayer et empêcher le parachèvement plein et entier d’un eurasisme indo-européanisant.

 

L’affrontement entre l’Empire continental des Tsars et l’Empire maritime des Britanniques

 

L’affrontement entre la thalassocratie anglaise et le continentalisme russe débute dès les premières conquêtes de Nicolas I, qui règna de 1825 à 1855 et consolida les conquêtes d’Alexandre I dans le Caucase, tout en avançant profondément dans les steppes du Kazakhstan, entre 1846 et 1853. Nicolas I désenclave également la Mer Noire, en fait un lac russe: alarmée, l’Angleterre fait signer une convention internationale en 1841, interdisant le franchissement des détroits pour tout navire de guerre non turc. Elle avait soutenu le Sultan contre le Pacha d’Egypte, Mehmet Ali, appuyé par la France. En 1838, elle s’installe à Aden, position stratégique clef dans l’Océan Indien et à la sortie de la Mer Rouge. C’est le début d’une série de conquêtes territoriales, en réponse aux avancées russes dans le Kazakhstan actuel: sont ainsi absorbés dans l’Empire thalassocratique anglais, le Baloutchistan en 1876 et la Birmanie intérieure en 1886. Pour contrer les Russes au nord de l’Himalaya, une expédition est même lancée en direction du Tibet en 1903.

 

Dans ce contexte, la Guerre de Crimée (1853-1855), suivie du Traité de Paris (1856), revêt une importance toute particulière. L’Angleterre entraîne la France de Napoléon III et le Piémont-Sardaigne dans une guerre en Mer Noire pour soutenir l’Empire ottoman moribond que la Russie s’apprête à absorber. Les intellectuels russes, à la suite de cette guerre perdue, vont cultiver systématiquement une méfiance à l’égard de l’Occident, posé comme libéral, “dégénéré” et “sénescent”, sans pour autant abandonner, dans les cinq dernières décennies du XIX° leur eurasisme indo-européanisant: l’obsession du danger “mongol”, qualifié de “panmongoliste”, demeure intacte (6). L’Orient de ces intellectuels orthodoxes et slavophiles est russe et byzantin, les référents demeurent donc de matrice grecque-chrétienne et européenne. Dans ce contexte, Vladimir Soloviev prophétise une future nouvelle invasion “mongole” en 1894, à laquelle la Russie devra faire face sans pouvoir compter sur un Occident décadent, prêt à trahir son européanité. Neuf ans plus tard, la défaite russe de Tchouchima laisse entrevoir que cette prophétie était juste, du moins partiellement.

 

La thématique du “péril panmongol” dans la littérature russe

 

Gogol, dans deux récits fantastiques, “Le portrait” et “Une terrible vengeance”, aligne des personnages de traîtres, dont l’anti-héros Petromihali, qui infusent dans l’âme russe des  perversités asiatiques et les préparent ainsi à la soumission. Dostoïevski, dans “La légende de l’Antéchrist”, faire dire à son “Grand Inquisiteur” que le Christ, auquel la Russie doit s’identifier jusqu’à accepter le martyre, a eu tort de refuser une “monarchie universelle” à la Gengis Khan ou à la Tamerlan. Satan l’a proposée au Christ, et le “Grand Inquisiteur” qui est une incarnation du Malin sous le déguisement d’un dignitaire de l’Eglise du Fils de Dieu, reproche au Christ, revenu sur Terre et qu’il va juger, d’avoir refusé ce pouvoir absolu, séculier et non spirituel. La Russie doit donc refuser un pouvoir de type asiatique, rester fidèle à ses racines européennes et chrétiennes, c’est-à-dire à une liberté de l’âme, à une liberté intérieure qui se passe de l’Etat ou, du moins, ne le hisse pas au rang d’idole absolue car, sinon, l’humanité entière connaîtra le sort peu enviable de la “fourmilière rassassiée”. La liberté scythe et cosaque, en lutte contre les ténèbres asiatiques, doit prévaloir, se maintenir envers et contre tout, même si elle n’est plus qu’une petite flamme ténue. Plus tard, le “totalitarisme” communiste et les dangers impitoyables du “panmongolisme”, annoncés par Soloviev, fusionneront dans l’esprit de la dissidence, jusqu’à l’oeuvre de Soljénitsyne. Dimitri Merejkovski ira même plus loin: le monde “s’enchinoisera”, l’Europe sombrera dans la veulerie et la léthargie et le monde entier basculera dans un bourbier insondable de médiocrité. “L’enchinoisement”, craint par Merejkovski, peut certes s’interpéréter de multiples manières mais une chose est certaine: il implique un oubli dramatique de l’identité même de l’homme de qualité, en l’occurrence de l’homme russe et européen, oubli qui condamne l’humanité entière à une sortie hors de l’histoire et donc à une plongée dans l’insignifiance et la répétition stérile de modes de comportement figés et stéréotypés. En ce sens, la figure du “Chinois” est métaphorique, tout aussi métaphorique qu’elle le sera chez un Louis-Ferdinand Céline après 1945.

 

Jusqu’à la révolution bolchevique, l’eurasisme russe demeure indo-européanisant: il reste dans la logique de la reconquête de l’espace scythique-sarmate, “proto-iranien” dirait-on de nos jours. La Russie est revenue dans les immensités sibériennes et centre-asiatiques: ce n’est pas pour en être délogée comme en furent délogés les peuples cavaliers, à partir du déploiement de la puissance de la Confédération des Xiongnu. Toutefois cet anti-asiatisme, réel ou métaphorique, et cette volonté d’être européen sur un mode non plus repu, comme les Occidentaux, mais sur un mode énergique et héroïque, ne touche pas l’ensemble de la pensée stratégique russe: au lendemain de la Guerre de Crimée, où le Tsar Nicolas I avait délibérément voulu passer sur le corps de l’Empire Ottoman pour obtenir une “fenêtre” sur la Méditerranée, Konstantin Leontiev suggère une autre stratégie. Il vise une alliance anti-moderne des chrétiens orthodoxes et des musulmans contre le libéralisme et le démocratisme modernes, diffusés par les puissances occidentales. On ne déboulera pas sur les rives de  l’Egée par la violence, en allant soutenir des nationalismes balkaniques ou helléniques  entachés de modernisme occidental, mais en soutenant plutôt la Sublime Porte contre les subversions intérieures qui la minent, de façon à apaiser toutes les tensions  qui  pourraient survenir dans le vaste espace musulman et turcophone fraîchement conquis en Asie centrale et à obtenir des concessions portuaires et navales en Egée et en Méditerranée orientale, tout en annulant les contraintes des traîtés fomentés par l’Angleterre pour bloquer le passage des Détroits. Leontiev suggère dès lors une alliance entre Russes et Ottomans, qui constituerait un bloc de Tradition contre le modernisme occidental. Cette idée, conservatrice, est reprise aujourd’hui par les néo-eurasistes russes.

 

L’idée de Leontiev peut bien sûr se conjuguer à certaines visions de l’anti-mongolisme littéraire, surtout si elle vise, comme ennemi premier, le libéralisme et le positivisme occidentaux, pendants néo-kantiens de l’immobilisme “jaune”, qui engourdissent les âmes. Avec la révolution bolchevique et la rupture avec l’Occident qui s’ensuivit, l’anti-asiatisme va s’estomper et, comme la nouvelle URSS est de facto une synthèse d’Europe et d’Asie, on élaborera, dans un premier temps, “l’idée scythe”. Les “Scythes”, dans cette optique, sont les “Barbares de l’Ouest” dans l’espace russo-sibérien, tandis que les “Barbares de l’Est” sont les cavaliers turco-mongols. On ne spécule plus sur les différences raciales, posées comme fondamentales dans l’eurasisme indo-européanisant, mais sur les points communs de cette civilisation non urbanisée et non bourgeoise, qui abhorre la quiétude et portera l’incendie révolutionnaire dans le monde entier, en balayant toutes les sociétés vermoulues. Du “scythisme”, dont le référent est encore un peuple indo-européen, on passe rapidement à un idéal fusionniste slavo-turc voire slavo-mongol, qui unit dans une même idéologie fantasmagorique tous les peuples de l’URSS, qu’ils soient slaves-scythes ou turco-mongols.

 

Du scythisme des années 20 au néo-eurasisme actuel

 

Jusqu’à l’effondrement de l’Union Soviétique, l’élément slave et scythe reste implicitement dominant. Quand les républiques musulmanes centre-asiatiques de l’éphémère CEI obtiennent une indépendance pleine et entière, la Russie perd tous les glacis conquis par les Tsars de Catherine la Grande à Nicolas II. Le néo-eurasisme est une réaction face à la dislocation d’un bloc qui fut puissant: il cherche à rallier tous ceux qui en ont fait partie au nom d’une nouvelle idéologie partagée et à constituer ainsi un ersatz à l’internationalisme communiste défunt.

 

D’un point de vue eurasiste indo-européanisant, cette position peut se comprendre et s’accepter. Le néo-eurasisme refuse de voir se reconstituer, dans les steppes centre-asiatiques, un môle anti-russe, porté par un nouveau panmongolisme, un pantouranisme, un panislamisme ou une idéologie occidentaliste. L’eurasisme indo-européanisant, le “scythisme” des premières années du bolchevisme et le néo-eurasisme actuel, dont la version propagée par Alexandre Douguine (7) ont pour point commun essentiel de vouloir garder en une seule unité stratégique l’aire maximale d’expansion des peuples indo-européens, en dépit du fait qu’une portion majeure, stratégiquement primordiale, de cette aire soit occupée désormais par des peuples turcophones islamisés, dont le foyer originel se trouve sur le territoire de l’ancienne culture dite des “tombes à dalles” ou dans l’Altaï et dont la direction migratoire traditionnelle, et donc la cible de leurs attaques, porte dans l’autre sens, non plus d’ouest en est, mais d’est en ouest.

 

L’idéologie néo-eurasienne, avec sa volonté de consolider un bloc russo-asiatique, s’exprime essentiellement dans les stratégies élaborées par le Groupe de Changhaï et dans les réponses que celui-ci apporte aux actions américaines sur la masse continentale eurasienne.

 

L’expansion “bi-océanique” des Etats-Unis au XIX° siècle

 

Face à cet eurasisme, qui se conjugue en trois modes (indo-européanisant, scythique et russo-turco-mongol), qu’en est-il exactement de l’atlantisme, posé comme son adversaire essentiel sinon métaphysique? A l’aube du XIX° siècle, les “Treize colonies” américaines, qui ont fraîchement acquis leur indépendance face à l’Angleterre, ne possèdent pas encore un poids suffisant pour s’opposer  aux puissances européennes. Leur premier accroissement territorial vient de l’acquisition de la Louisiane, qui leur donne une plus grande profondeur territoriale sur le continent nord-américain. En Europe, l’effondrement du système napoléonien fait éclore, avec le Traité de Vienne de 1815, qui ménage la France redevenue royale, une “Sainte-Alliance” ou une “Pentarchie” qui est, ipso facto, eurasienne. La “Pentarchie”  s’étend, de fait, de l’Atlantique au Pacifique, puisque la Russie du Tsar Alexandre I en fait partie, en constitue même la masse territoriale la plus importante. On oublie trop souvent que l’Europe a été eurasienne et que l’eurasisme n’est pas une lubie nouvelle, imaginée par des intellectuels en mal d’innovation à la suite de la chute du Mur de Berlin et de la disparition du système soviétique. La Pentarchie, système unifiant l’Europe, n’a pas duré longtemps mais elle a existé et rendu notre sous-continent et la Russie-Sibérie inviolables et invincibles. Elle est par conséquent un modèle à imiter, une situation idéale à restaurer.

 

Face à ce bloc euro-pentarchique, en apparence inexpugnable, les Etats-Unis se sentent minorisés, craignent pour leur subsistance et, par une audace inouïe, leur Président, James Monroe proclame sa célèbre Doctrine en 1823 en imaginant, dans un premier temps, que le monde sera divisé en un “ancien monde” et un “nouveau monde”, dont il s’agira d’interdire l’accès à toutes les puissances de la Pentarchie et à l’Espagne, où elle était intervenue pour rétablir l’ordre (8). La proclamation de la Doctrine de Monroe est un premier grand défi au bloc pentarchique eurasiatique, avant même que les Etats-Unis ne soient devenus une puissance bi-océanique, à la fois atlantique et pacifique. Ils ne possèdent pas encore, en 1823, le Texas, le Nouveau-Mexique, la Californie et l’Alaska. En 1848, suite à la défaite du Mexique, ils deviennent bi-océaniques, ce qui revient à dire qu’ils ne sont pas exclusivement “atlantistes” mais constituent aussi une puissance intervenante dans les immensités du plus grand océan de la planète. Déjà, certains sénateurs envisagent de réorganiser la Chine pour qu’elle devienne le premier débouché des Etats-Unis et de leur industrie naissante. Le Commodore Matthew C. Perry, dès 1853-54, force, sous la menace, le Japon à s’ouvrir au commerce américain: première manifestation musclée d’une volonté claire et nette de dominer le Pacifique, contre les pays riverains du littoral asiatique de ce grand océan. Il faudra attendre la guerre hispano-américaine de 1898 pour que les Etats-Unis s’emparent d’un territoire insulaire face à l’Asie, en l’occurrence les Philippines, pour donner du poids à leurs revendications. Sous la présidence de Théodore (Teddy) Roosevelt, les Etats-Unis jettent les bases, non d’un atlantisme, mais d’un mondialisme offensif. L’instrument de cette politique mondialiste sera la flotte que l’Amiral Alfred Thayer Mahan appelle à constituer pour que les Etats-Unis puissent faire face, avec succès, au reste du monde. En 1912, Homer Lea, officier américain formé à Westpoint mais démis de ses fonctions pour raisons de santé, théorisera, immédiatement après John Halford Mackinder, les règles de l’endiguement de l’Allemagne et de la Russie, avant même que l’alliance anglo-américaine ne soit devenue une réalité.

 

Une thalassocratie pluri-océanique

 

Avec Teddy Roosevelt et avec Mackinder, nous avons affaire, dans la première décennie du XX° siècle à un mondialisme thalassocratique américain, maître depuis 1898 des Caraïbes et de la “Méditerranée américaine”, mais sans aucune présence dans l’Océan Indien, et à une thalassocratie britannique, présente dans l’Atlantique Nord, dans l’Atlantique Sud (où l’Argentine est un de ses débouchés), dans l’Océan Indien et dans le Pacifique Sud. La puissance découle des capacités des marines de guerre et des fameux “dreadnoughts”, mais elle est toujours au moins bi-océanique, sinon pluri-océanique. Les Centraux en 1918 et l’Axe en 1945 perdent la guerre parce qu’ils ne maîtrisent aucune mer, même pas la Méditerranée, la Mer du Nord et les zones chevauchant l’Atlantique Nord et l’Océan Glacial Arctique, puisque Malte, Gibraltar, Chypre et l’Egypte (avec Suez) resteront toujours aux mains des Britanniques et que le trafic maritime des “liberty ships”, en dépit des pertes infligées par les sous-marins allemands, ne sera jamais interrompu entre l’Amérique du Nord et le port soviétique de Mourmansk. La seconde guerre mondiale est une lutte entre, d’une part, les thalassocraties anglo-saxonnes maîtresses des océans et alliées à la puissance eurasiatique soviétique, et, d’autre part, une péninsule européenne riche mais dépourvue d’une réelle puissance navale, alliée à un archipel du Pacifique, surpeuplé et dépourvu de matières premières.

 

Le terme d’atlantisme apparaît lors des accords entre Churchill et Roosevelt, scellés au beau milieu de l’Océan en 1941. En 1945, l’Amérique du Nord et l’Europe occidentale forment un ensemble, qui deviendra l’OTAN, une alliance centrée sur l’Atlantique-Nord, que l’on qualifiera rapidement, dans les écrits polémiques, d’ “atlantisme”. Mais l’Atlantique, en tant qu’espace océanique, est-il si déterminant que cela dans les atouts, multiples et variés, qui confèrent aujourd’hui la puissance aux Etats-Unis? Non. Car, si la puissance de la Russie, des Tsars à la perestroïka, repose, comme l’avait constaté Mackinder en 1904, sur la possession de la “Terre du Milieu”, celle de l’Empire britannique reposait sur la maîtrise complète de l’ “Océan du  Milieu”, l’Océan Indien. En 1947, quand l’Inde accède à l’indépendance mais subit simultanément une partition dramatique, opposant une Inde nouvelle majoritairement hindoue à un Pakistan presque totalement musulman, l’Océan Indien, débarrassé de ses maîtres britanniques épuisés par deux guerres mondiales, entre dans une phase de neutralisation provisoire. Il est alors l’espace du non-alignement. L’Inde de Nehru, clef de voûte géographique de l’ancien arc de puissance britannique (du Cap à Perth), propage une logique politique détachée des blocs issus de la bipolarisation de la Guerre Froide. Dès les années 60, Mohammed Reza Pahlavi, Shah d’Iran, théorise l’idéal d’une “Grande Civilisation” dans l’Océan Indien, tout en multipliant les démarches diplomatiques pacifiantes avec ses voisins, y compris soviétiques. A Washington, on comprend rapidement que la Guerre Froide ne se gagnera pas en Europe, sur un front qui correspond au Rideau de Fer, mais qu’il faut endiguer l’URSS, en renouant avec la Chine, comme le fit le tandem Nixon-Kissinger au début des années 70; en tablant sur les peuples installés le long de la Route de la Soie et en éveillant les forces centrifuges au sein même de l’Union Soviétique, comme l’envisageait Zbigniew Brzezinski; en entraînant l’URSS dans le bourbier afghan; en tablant sur le fanatisme musulman pour lutter contre l’athéisme communiste et pour briser l’alternative locale proposée par le Shah d’Iran, car, en dépit des affrontements irano-américains largement médiatisés depuis la prise d’otages à l’ambassade américaine de Téhéran au début de l’ère khomeyniste, il ne faut pas oublier que la “révolution islamiste” d’Iran a d’abord été une création des services américains, pour briser la politique énergétique du Shah, casser les relations qu’il entretenait avec l’Europe et mettre l’Iran et ses potentialités au “frigo”, le plus longtemps possible. Ces stratégies avaient toutes pour but de revenir dans l’Océan Indien et dans le Golfe Persique. Elles ont contribué à la reconquête de l’Océan Indien et fait des Etats-Unis une puissance désormais tri-océanique.

 

La maîtrise de l’Océan Indien reste la clef de la puissance mondiale

 

La dialectique atlantisme/eurasisme, dont les néo-eurasiens russes actuels font usage dans leurs polémiques anti-américaines, oublie que l’Amérique ne tient pas sa puissance aujourd’hui de sa maîtrise de l’Atlantique, océan pacifié où ne se joue pas l’histoire qui est en train de se faire, mais de son retour offensif dans l’Océan du Milieu. L’abus du vocable “atlantiste” risque de provoquer une sorte d’illusion d’optique et de faire oublier que ce n’est pas la maîtrise des Açores, petit archipel portugais au centre de l’Atlantique, qui a provoqué la désagrégation de l’URSS, puissance eurasienne, mais la maîtrise de Diego Garcia, île au centre de l’Océan Indien, d’où partaient les forteresses volantes qui bombardaient l’Afghanistan et l’Irak. C’est au départ des forces aéronavales massées à Diego Garcia qu’adviendra peut-être le “Greater Middle East”. Si c’est le cas, l’Europe et la Russie seront condamnées à l’isolement, à n’avoir aucune fenêtre sur les espaces où s’est toujours joué, et se joue encore, le destin du monde. 

 

Certes, l’atlantisme est, pour les Européens, une idéologie engourdissante, aussi engourdissante, sinon plus, que “l’enchinoisement”, réel ou métaphorique, dénoncé par Soloviev ou Merejkovski: Danilevski, lui, parlait de l’Occident comme d’un cimetière pour les plus sublimes vertus spirituelles humaines et l’écrivain russe provocateur et contemporain, Edouard Limonov, parle, lui, d’un “Grand Hospice occidental”. Mais ce n’est pas là un problème géopolitique, c’est un problème théologique, métaphysique, philosophique et éthique. Qu’il convient d’aborder avec force et élan. Pour dégager l’humanité des torpeurs et des enlisements du consumérisme.

 

Robert STEUCKERS.

(fait à Forest-Flotzenberg, du 11 au 15 février 2009).

 

Notes:

(1)       Cf. Colin McEVEDY, “The New Penguin Atlas of Ancient History”, Penguin, London, 2nd ed., 2002.

(2)       Cf. Jacques BERTIN, “Atlas historique universel – Panorama de l’histoire du monde”, Minerva, Genève, 1997.

(3)       Robert DELORT (Éd.), “Les croisades”, Seuil, coll. “Points”, 1988.

(4)       Vicente FERNANDEZ & Dionisio A. CUETO, “Los perros de la Reina – Piratas ingleses contra España (s. XVI)”, Almena Ed., Madrid, 2003.

(5)       Frances A. YATES, “Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana”, Einaudi, Torino, 1982.

(6)       Cf. Georges NIVAT, “Vers la fin du mythe russe – Essais sur la culture russe de Gogol à nos jours”, Lausanne, L’Age d’Homme, 1988.

(7)       Cf. Mark J. SEDGWICK, “Contre le monde moderne – Le traditionalisme et l’histoire intellectuelle secrète du XX° siècle”, Ed. Dervy, Paris, 2008.

(8)       Dexter PERKINS, “Storia della Dottrina di Monroe”, Societa Editrice Il Mulino, Bologne, 1960.